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 2022  marzo 12 Sabato calendario

Jean-Paul Manganaro ricorda l’amico Carmelo Bene

I libri di Jean-Paul Manganaro, come quelli su Gadda o Fellini, nascono da accanite, sedimentate fedeltà. Ognuno cede di schianto a un’ossessione, una tentazione cullata e temuta: l’ostensione di un culto privatissimo, incarnito al proprio organismo mentale. Ma quello su Carmelo Bene, per questo caliente siciliano di Parigi, è un discorso a parte. Il testo che il Saggiatore pubblica nel ventennale della morte (16 marzo 2002) trova precedenti nella sua prima pubblicazione, del ’77; l’anno dopo nella traduzione di Un manifesto di meno di Gilles Deleuze in Sovrapposizioni, a due voci col Riccardo III di Bene; infine nell’edizione delle sue Œuvres complètes, in tre volumi fra il 2003 e il 2013.
È un «a parte» perché, col mostro sacro in vita, docile Manganaro s’era disposto nella postura del suiveur. Complice più che interprete privilegiato, per non dire vittima prediletta del monstrum, ancora oggi si presenta invasato d’un Bene reincarnato e «dimenticato a memoria». Ritroviamo anche pagine degli anni Ottanta e Novanta ma, scrisse Flaiano d’uno dei suoi innumerevoli Amleto, «come non ci si bagna due volte nello stesso fiume, così è impossibile vedere due volte lo stesso spettacolo “Carmelo Bene"». Ogni ripetizione è differenza, e ogni differenza è ripetizione. Non ci può essere linearità dal momento che – diceva Bene – «la vita che conta è quella che non puoi raccontare». Quella che resta, allora, è solo la leggenda. Sin dal titolo Manganaro si fa osservante di una Legenda Sancti Carmeli, dalla «santità» quasi dostoevskiana. Scriveva nel ’64 il fascistoide «Il Borghese»: «dinanzi a personaggi come Carmelo Bene e come Franco Citti nulla può la critica teatrale. Debbono intervenire i carabinieri; bisogna soltanto accertarsi della loro identità e metterli in galera, perché oltraggiano il buon gusto, nuocciono all’igiene pubblica, deturpano il paesaggio». È una delle poche recensioni che Bene conservava: una medaglia. Manganaro parla di «immagine e suono, suono-immagine, suono-voce», e non si può non pensare allora all’Immagine-movimento (altro testo straordinario da lui tradotto) e all’Immagine-tempo di Deleuze: sarebbe allora, quella di Bene, un’immagine-voce o «voce significante». Il modus non è diverso: non filosofia sul teatro ma col teatro, parlando di chi l’ha fatta nel teatro, come Deleuze l’ha fatta col cinema, su autori che avevano fatto lo stesso nel cinema.
Di Bene uomo si può dire solo dall’esterno, da testimoni, ossia appunto spettatori (lo si dica come di uno spettacolo naturale, miracolo o cataclisma): lo ha fatto Luisa Viglietti nel bel memoir intitolato Cominciò che era finita (Edizioni dell’Asino 2020). Manganaro lo fa invece con Bene “artista” o meglio manufatto artistico, “opera”. Il suo pensiero-corpo non tollera “interpretazioni": può venire solo sondato, attraversato, riverberato. Ci si limita a constatare le conseguenze della sua «apparizione» sul nostro corpo e la nostra memoria. Per me per esempio Ostia Antica, A.D. 1994: quando Bene lesse – se questa parola è adeguata – i Canti Orfici di Campana (in un non meno leggendario cd Bompiani raccomanderà: «l’audio, il livello dell’audio, molto brillante»). S’incarnava così quella che Manganaro chiama la «non sottomissione» di Bene che, terremotando «dall’interno la fluenza del parlare, della lingua borghese classica», «traccia la via di forme culturali nuove» e sulla scena strappa il corpo «all’organizzazione, lo disorganizza in quanto sistema sociale chiuso». Manganaro ricorda la mitica lectura Dantis dell’81 (in cd da Luca Sossella), in ricordo della strage di Bologna, quando dall’alto della Torre degli Asinelli il Vate si rivolse all’Inferno in cui sopravviviamo, all’«aiuola che ci fa tanto feroci»: «quando lo senti per la prima volta singhiozzi: non capisci da dove viene ma ne percepisci tutta la grandezza, vorrei dire la maestà».
Verso la fine racconta Manganaro il momento in cui si trovò esposto la prima volta al «fenomeno»: nel ’69, a una proiezione parigina di Nostra Signora dei Turchi. È una bellissima descrizione dell’«inaudito» (il contrario simmetrico della “cultura” che si consuma oggi, dalla quale il pubblico pagante desidera solo conferme di quanto già sa, o crede di sapere): «pochissimi anni prima, lo stesso choc fisico sconvolgente leggendo la prima pagina della Cognizione del dolore di Gadda: anche lì non credevo ai miei occhi, non credevo possibile che quanto stavo leggendo fosse veramente stampato, che fosse scritto proprio così, con quelle parole che facevano divampare la lingua in rogo. Lo stesso choc, con Carmelo Bene: l’impensabile davanti agli occhi, senza tregua. È un nulla pieno e non sai di che, ti colma e ti fa traboccare. È un po’ come l’amore e come il sesso, a pensarci bene, non c’è nulla, ma questo nulla è un tutto che non ammette discorso». E così conclude: «ricevo una sua telefonata: testualmente: “So che non vuoi vedermi morto, vuoi vedermi ancora vivo. Allora è adesso”. Partii subito, per una quindicina di giorni. Poi, a marzo, morì».