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 2022  marzo 12 Sabato calendario

Intervista a Valerio Magrelli

«Siamo nell’era dell’immagine, un’epoca di parole ma di parole povere, totalmente strumentali. Sia che trionfi l’immagine sia che trionfi una parola ormai ridotta all’osso, chi ci va di mezzo è la ricchezza del linguaggio che si riduce all’emoticon o al like. Paradossalmente ho finito per scrivere poesia civile proprio in questo periodo, forse perché sento la necessità di un ritorno a queste forze abbandonate».
A dirlo è Valerio Magrelli, in libreria da pochi giorni con l’ultima raccolta in versi, Exfanzia. Magrelli è artefice di una lingua lucida, unica nel suo genere, che evita pedanterie concettuali e restituisce una quotidianità collettiva e concreta. Sta anche qui l’originalità del poeta romano, se pensiamo al periodo in cui iniziò a scrivere, durante gli anni ’70. Un’epoca in cui il dettato era quello dell’impegno politico, civile. Ma, appunto, non c’è nulla di più civile, in poesia, che non seguire i dettati.
"Exfanzia" è titolo presente anche "Nel condominio di carne" dove si rapportava al mondo attraverso alcuni disturbi del corpo. Si ricollega a quell’idea?
«In parte sì perché sono rimasto fedele alla mia vocazione per gli incidenti, le operazioni poco gravi che tuttavia punteggiano la mia vita. Sono inoltre tornato a quella parola perché amo le etimologie e ancora di più le false etimologie. Ho voluto scambiare quell’in, che pare un’introduzione, con ex che è l’espulsione, se vogliamo anche espulsione della parola perché infantem ha a che vedere con la favella e cioè con la possibilità di parlare. Quindi con "exfanzia" è come se parlassi di una vecchiaia che è anche un allontanamento dal linguaggio».
Scrive anche: Nulla collega l’etica / alla letteratura…
«Ho appena concluso un breve libro divulgativo su Céline e lì si ha proprio il paradigma di questo scollamento. Céline è uno scrittore immenso che allo stesso tempo assume delle posizioni barbariche. La letteratura è qualcosa d’altro. Non dobbiamo chiederle nulla. Un pensiero che mi giunge anche da un altro tipo di studio sulle avanguardie. Io rimasi molto colpito da quei manifesti - che allora trattenevano tutt’altro registro - ma che avevano sempre qualcosa di prescrittivo. Per me resta grandissimo l’urlo di Palazzeschi che del poeta dice: "Lasciatemi divertire"».
Un grido di libertà?
«Certo. E mi viene in mente un altro grande autore, Sandro Penna, quale lezione vogliamo tirare fuori da Sandro Penna? La lezione di un’umanità che sicuramente non si può arruolare sotto nessuna bandiera».
Ha esordito giovanissimo, appena ventiduenne. Oggi spesso ci si lamenta della mancanza di dibattito e di una società letteraria. Negli anni ’80 il fronte poetico era più attivo?
«È una domanda che mi pongo spesso. In realtà esistono ancora dei centri di discussione, penso a tante riviste on line vivacissime con persone giovani e competenti. Non posso dire che oggi la situazione sia più desertica. Forse quello che manca è la "rete", paradossale nell’era della rete, eppure manca un sistema connettivo, forse sì, manca una società letteraria, mancano iniziative che permettano lo scambio. Siamo in un’epoca di espansione e di esplosione, una sorta di big-bang con i suoi lati positivi e negativi. A Roma sono in contatto con dei giovani poeti, mi interessano molto anche se li sento lontani dalla mia posizione, tuttavia ciò che importa è che ci sia un momento di scambio, di ascolto, purtroppo più difficile di un tempo».
Qual è il suo rapporto con la traduzione?
«È molto profondo, ed è nato grazie a due figure: Magda Olivetti con la sua Scuola Europea di Traduzione Letteraria, con cui ho collaborato, e poi Giulio Einaudi, che mi fece dirigere una collana trilingue. Alla fine tutto ciò portò a un mio libro, La parola braccata. La mia idea era questa: che il traduttore, quando cerca la parola adeguata, compie lo stesso sforzo che ci capita di effettuare nel momento in cui dimentichiamo un nome. La parola va braccata, sia che tu la dimentichi, sia che tu debba cercare un’equivalente in un’altra lingua».
A proposito di altre lingue, mi vengono in mente il suo amore per il cinema e la sua interpretazione in "Caro diario" di Moretti…
«È stato un unicum. Eravamo amici, ci univa soprattutto il tennis. Era un’occasione divertente, realizzata tra l’altro grazie a Sandro Veronesi. Devo però confidare un segreto, al mio primo anno universitario, alla Sorbona a Parigi, ho studiato cinema e sono rimasto un cinefilo incallito. Durante la pandemia ho sfruttato molte serate per vedere o rivedere i classici, per me il cinema fa tutt’uno con la mia formazione. Parlando con gli amici scambio i film visti come se fossero le figurine dei bimbi. In quest’ultimo libro c’è pure una sezione dedicata ad alcune serie di Netflix».
In un titolo cita Derrida, che paragona la poesia all’istrice che viene investito quando attraversa la strada. La metafora indica l’esposizione della poesia, che rischia di essere schiacciata da ciò che le viene addosso. Anche lei ha iniziato a scrivere dopo una collisisone?
«Credo di aver ideato un racconto artificiale retrospettivo. Ricordo che i primi testi li mostrai a Nanni Cagnone, Elio Pagliarani, Enzo Siciliano, Antonio Porta, tutti quei testi effettivamente li avevo scritti in ospedale, dopo un incidente che ho avuto a diciassette anni. Era estate per cui non mi veniva a trovare nessuno e io non facevo altro che leggere e scrivere. Alla fine ho pure riscoperto dei vecchi quaderni iniziati quando avevo dieci, undici anni, quindi è difficile decidere il momento esatto in cui si inizia a comporre poesia».
Giovanni Giudici diceva di aver bisogno di regole, se non altro per trasgredirle. È anche il suo caso? In una poesia scrive quanto la forma ci renda liberi…
«Assolutamente. Ho addirittura dedicato una poesia a Giudici, anche se non era un mio punto di riferimento, eppure succede così… Ho avuto un legame profondo con Giorgio Caproni, con Attilio Bertolucci ma non mi è mai capitato di dedicare loro una poesia, cosa che invece è accaduta con Giudici e con Sanguineti. Di Giudici mi piaceva molto questa sua sapienza tecnica».
In "Exfanzia", tra gli autori contemporanei, cita anche Vittorio Sereni e Valentino Zeichen. Ha fatto in tempo a conoscere Sereni?
«Passai una mattinata con lui a Mondadori. Lo ricordo come una persona di una gentilezza squisita, accogliente. Valentino era invece un amico molto caro, andai a trovarlo un’ultima volta in ospedale e lì nacque la poesia che gli ho dedicato. Abbiamo fatto tanti viaggi insieme, era una figura unica e per me importante. Quando pubblicai i miei primi testi, intorno al 1977, Zeichen fu un punto di riferimento essenziale per l’uso di una prosa ordinata, di una scansione tradizionale e lo sviluppo di un’articolazione logica».
Lei è famoso anche per le sue idiosincrasie, che spesso idiosincrasie non sono ma veri e propri Soprusi di cui la maggior parte della gente tace. E scrive che la verità è come il sangue, ci permette di vivere ma non dovrebbe mai venire alla luce. Perché è così difficile dire la verità?
«Sono due questioni diverse. Sulla verità mi viene in mente una frase di Karl Kraus: "Mentire per necessità è comprensibile ma dire la verità senza che ce ne sia bisogno è imperdonabile". Diverso è il caso della difesa dei diritti. Sul sopruso, che io quotidianamente sconto come chiunque, ho soltanto il privilegio - che è anche una croce - di avere i capelli rossi. Chi ha i capelli rossi ha una soglia di dolore bassa, è molto più esposto, sente di più i rumori, gli odori, tutto è accentuato e io ho effettivamente questa forma di allergia contro forme di invadenza e invasione inconcepibili e che purtroppo sono ormai il tessuto della nostra vita quotidiana. Mi fa solo ridere l’idea che un tempo si diceva "la vita urbana" per indicare la vita gentile e civile. Oggi è il contrario, rumori, allarmi… Scrissi un intero capitolo in cui chiedevo che qualcuno mi facesse capire il motivo per cui un danno di un singolo debba disturbare un intero quartiere. Cerco di portare tutto questo nei versi, quando ci riesco».