Tuttolibri, 12 marzo 2022
Intervista a Yasmina Reza
Yasmina Reza, scrittrice e drammaturga francese, ha uno stile inconfondibile nel mettere in scena la commedia umana in tutti i suoi risvolti più tragici e grotteschi, grazie a una scrittura accuratissima e a un senso etico del rigore, come lei stessa rivendica. Serge, il suo nuovo romanzo, non fa eccezione.
Esiste un’importante tradizione letteraria che mette al centro la famiglia, in particolare quella ebrea, con i suoi legami forti e le sue nevrosi. In "Serge", in qualche modo, lei riprende questa tradizione per scardinare e reinventare il racconto "classico" della famiglia ebrea?
«Io stessa appartengo a questo tipo di famiglia. Ne conosco le caratteristiche dall’interno. Non ho alcuna difficoltà a declinare tutte le forme di irrazionalità e follia che vi circolano. Non so esattamente che intenda per racconto classico, mi sembra che nell’opera di Roth, o in Singer per citarne solo un paio, ci fossero già esempi molto innovativi di questo tipo di formazione».
Mi viene in mente un romanzo come "Lessico Famigliare" di Natalia Ginzburg, dove la famiglia si ritrova intorno alle loro espressioni "affettive". La famiglia che racconta lei sembra invece ritrovarsi intorno ai "non-detti", con esiti esilaranti. Mi sembra che la sua scrittura sia abilissima a smascherare i "non-detti" delle persone. Come riesce ad arrivare a quella verità?
«Mi fa molto piacere che lei citi Natalia Ginzburg. Ho scoperto questa scrittrice piuttosto recentemente, perché in Francia non è tanto nota, e mi piace molto. Il "non detto" è inerente alla mia scrittura. È una conseguenza, credo, della mia lunga frequentazione del mondo del teatro. Per molto tempo ho scritto solo testi teatrali, avendo come unica preoccupazione quella di non scrivere al posto dell’attore. I grandi attori possono esprimere così tante cose senza il supporto delle parole, o piuttosto con un supporto non esplicito, leggero, solo quel tanto che è necessario. Alla fine si dice tutto ma usando i mezzi del sotto-testo e del silenzio».
"Serge", come molte delle sue opere, ha quasi lo sguardo di un documentario di osservazione, come se lei usasse un meccanismo di presa diretta sulla realtà, per cui dialoghi e personaggi sono vivissimi e autentici. Quanto si mette effettivamente in osservazione degli altri e quanto è un effetto che riesce a ottenere grazie a un lavoro di invenzione letteraria?
«Entrambe le cose, direi. Non sono molto brava ad analizzare come faccio quello che faccio. È tutto quanto piuttosto musicale. Ho un buon orecchio. È un elemento essenziale per i dialoghi. Mi metto nella condizione nervosa dei protagonisti e la vita sopraggiunge. Nella maggior parte dei casi sono i nervi e gli stati d’animo a guidare le situazioni, in quello che scrivo».
Nel romanzo c’è un particolare talento nel mettere in crisi i personaggi, tanto che a leggere le loro debolezze e idiosincrasie può capitare di sentirsi in imbarazzo per loro. Mi è sembrata interessante, coraggiosa e libera la scelta di accostare le piccolezze private dei personaggi a un’ambientazione storicamente densa di tragedia e dolore come Auschwitz. Come ha lavorato su questo contrasto?
«È esattamente quello che ho cercato di fare e che credo sia al centro del mio lavoro in generale. Non cerco di idealizzare l’uomo. Tanto meno di sminuirlo, ovviamente. Voglio soltanto parlare della sua impotenza, della sua incapacità a uscire da se stesso. Calare i personaggi in un contesto "sacro", in un’ambientazione storicamente carica di tragedia, e vederli andare avanti con i loro piccoli litigi, le loro piccole meschinità – cioè le cose grandi e le cose piccole di tutti i giorni, e il fatto che siano quelle piccole a prendere il sopravvento è sempre stato il mio tema. Il piccolo che supera il grande. Le cose ordinarie che superano quelle eccezionali. Ecco alcune persone che visitano un luogo con tutta la reverenza che è dovuta alla tragedia, alla storia, a quella sventura così immensa se paragonata alla loro infima sventura– ma è comunque l’infima sventura ad avere la meglio. È questa la mia vera materia. In un certo senso lo è sempre stata, ma in Serge è centrale, chiaramente».
A proposito di libertà, la Francia ha una lunga tradizione intellettuale di irriverenza, opposizione al ben pensare, e "scorrettezza" nella scrittura. Nella sua esperienza esiste più libertà di espressione in Francia che nel resto del mondo?
«Ah sì? Non direi. A chi sta pensando?».
Be’ uno come Houellebecq si è costruito molto una fama in tal senso…
«Houellebecq è sempre meno "scorretto"».
E i suoi libri hanno un’accoglienza diversa a seconda dei Paesi e del loro humus culturale?
«Sì, certo. E a volte è sorprendente. In Germania, per esempio, il mio lavoro, che si tratti di teatro o di romanzi, è particolarmente ben accolto. Eppure i nostri rispettivi humus culturali sono diversi».
Leggendo il romanzo mi è capitato di pensare al libro "Tragitti" della scrittrice tedesca Sybille Berg, che ironizza sulla stigmatizzazione del turismo contrapposto all’idealizzazione del "viaggio". In questo romanzo accade qualcosa di simile, anche se il "viaggio" è quello nella memoria. Secondo lei perché il turismo è considerato il male assoluto quando in fondo ci ritroviamo tutti, prima o poi, a essere turisti?
«Ormai siamo ontologicamente dei turisti. Non c’è modo per il popolo viaggiatore di sfuggire a questa condizione. Il turista è diventato una categoria universale. Il mondo è completamente riconfigurato. Vedo questo stato di cose come l’avvento di un’umanità senza consistenza».
A un certo punto scrive: "Per quanto Ramos Ochoa sia solo un personaggio secondario di questa storia, provo gusto a parlare di lui". Quanto sono importanti per lei i personaggi secondari? Come si affacciano nella storia?
«Tutti i personaggi sono importanti. Perché tutti gli elementi dialogano tra loro, come i colori di un dipinto. Qualche volta mi affeziono a un personaggio che non fa progredire nulla ma di cui amo la consistenza, e devo trattenermi dall’assegnargli un ruolo eccessivo rispetto agli altri».
"Un’immagine di Fauda con un 4 x 4 che sobbalza nel deserto può provocare una sconcertante nostalgia, la sensazione di essersi persi la propria vita vera" fa dire a un personaggio. Capita anche a lei? Da scrittrice affermata, le può capitare di provare la sensazione di essersi persa una sua "vita vera"?
«È un sentimento che può invadermi. Ma non ha nulla a che vedere con la mia qualità di scrittrice. Perché per quanti dubbi io possa avere, o quali che siano i sentimenti che io possa provare nei confronti del mio lavoro, non ne metto mai in discussione il rigore».
"Gli uomini non hanno etica verbale" è un’altra frase del suo romanzo. E per lei la letteratura ha "un’etica verbale?" O è, in un certo senso, al di sopra dell’etica?
«Sì. Esiste un’etica della scrittura. È per questo che le parlavo di rigore. Non si tratta di dire o non dire alcune cose, né di consegnare chissà quale messaggio edificante, bensì di stare attenti a non falsificare alcunché».