La Stampa, 12 marzo 2022
Intervista a Mauro Corona
Incontro Mauro Corona a Erto, dove è nato, cresciuto, rimasto. Arrivo da Erto vecchia, fantasma, di pietra, dopo il disastro del Vajont non ci vive nessuno, e la frana ce l’ho alle spalle, l’ho vista. Mi hanno spiegato che quella parte di montagna è la più friabile, la chiamano monte toc (toc è una cosa di poco valore, marcia).
La nuova Erto è corridoio e salotto insieme, ogni punto sembra l’entrata, il paese finisce in pochi passi. Corona è seduto ai tavolini di un bar ristorante senza insegna. È quasi mezzogiorno. Beve una birra con Ferruccio, il suo grande amico, quello che, quando andrò via, mi prenderà in disparte per dirmi «Mauro non lo conosci finché non lo vedi nel bosco, finché non lo senti parlare delle rocce: le tocca come fossero Belen».
Il 15 marzo esce il suo nuovo libro, Quattro stagioni per vivere (Mondadori). Ne ha scritti più di trenta, ha venduto 4 milioni di copie. In questo, un uomo ruba un camoscio a due cacciatori: sua madre sta morendo e gli ha chiesto di esaudire il suo ultimo desiderio, un brodo di carne di camoscio. I derubati giurano di ammazzarlo, lui scappa e per un anno vive tra le montagne e i boschi, inseguito da quei due, e ha come compagno il suo cane, Papo. È un libro bello e chiaro su cosa succede a un uomo quando resta solo, quando è esule: un uomo che si scopre grazie a un cane e a una montagna.
Mi siedo e Corona dice che devo mangiare. Ordino un gulash, lui una birra. Dice che non mangia quasi mai. Quando la cameriera porta via il mio piatto, lui afferra il quadratino di polenta che ho scartato. Dice che non si butta via il cibo: ha chiesto l’elemosina a lungo, quando era piccolo. Lo so. Ha raccontato molto della sua vita: so che sua madre è scappata di casa perché suo padre la picchiava e picchiava anche lui e i suoi fratelli, li legava e li bastonava; so che uno di loro è morto in Germania, annegato in una piscina, lui dice che l’hanno ammazzato.
Ringrazia la cameriera e le dice: «Quando me la dai?». Poi mi guarda, cerca la mia disapprovazione, trova un sorriso, e allora mi dice: «Essendo un vile e un pauroso, recito bene la prepotenza». La parte che recita è toc, come la montagna.
Mi porta nel suo studio, che è anche dove vive: la tana. È la bottega dell’intagliatore che so che è: punteruoli su tutti i tavoli, disposti in ordine di grandezza, e profumo di legno e miele. Dietro un pannello c’è un letto striminzito di fianco al quale vedo due scrivanie piene di quaderni. Scrive a mano. La brutta in corsivo, la bella in stampatello. Mi mostra con orgoglio le ragnatele del suo bagno: spesse e nere, si calano dal soffitto al pavimento, sono tende. Non c’è cucina. Ci sono libri dappertutto.
Resta vestito com’era prima, fuori: con la maglietta a maniche corte di Emergency.
Ha mai indossato una camicia?
«Quando vinsi il Cardo d’argento al festival della montagna di Trento, Mario Rigoni Stern, che era in giuria, si offrì di prestarmene una per la premiazione, ma non avevo tempo per cambiarmi. Poco dopo venne a sussurrarmi: pare che abbia vinto un montanaro. Poverino».
Perché poverino?
«Perché era dolce».
Anche lei lo è.
«Ci ho messo 72 anni per tirarlo fuori».
E ne è fiero?
«Ne sono felice».
Una volta ha detto che non le riesce di essere felice.
«L’equivoco immenso delle nostre vite è che non sappiamo cosa sia la felicità, e allora la sua ricerca diventa una smania. Ho creduto per anni che premi e classifiche me l’avrebbero data, ne ho fatto una malattia e ora non mi presenterei a ritirare un Nobel. E non perché non m’importi, però so che mi rendono felice cose più logiche, più vicine: la salute, il fatto che cammino, vedo, leggo».
Mi sembra in pace.
«No. Sono stato un alcolista e dall’alcol non si esce mai. Però ci si può salvare e io l’ho fatto perché ho letto dei libri e ho avuto dei figli. Loro sono stati la ragione che mi sono dato per non ledere la mia dignità: metterli in imbarazzo li avrebbe feriti per sempre. Quella che lei prende per pace è sincerità. Il protagonista butta giù la maschera e io con lui. Borges diceva che un libro si stampa solo per non dover passare la vita a correggerlo: gli ho sempre dato ragione e ho sempre riletto. Stavolta non lo farò: ho scritto quello che volevo così come lo sentivo».
Prima si censurava?
«No, e nemmeno ho mai avuto paura della pagina bianca, che è come avere paura di una donna nuda. Ma scrivevo con addosso un personaggio finto, un’imbracatura che mi proteggeva dalla mia vera natura, dalla mia debolezza».
Gli altri libri erano più facili? Voglio dire: più aderenti al suo personaggio.
«I libri facili non esistono, per me. Questo è solo il mio libro più vulnerabile, diverso da tutti gli altri che ho scritto, dove la mia insicurezza era mascherata e soffocata, oppure imbellita e sublimata. Qui ho raccontato una conversione: ero uno spaccone, ubriacone, arrogante, cacciatore con 15 processi per bracconaggio sul groppone, scrivevo storie piene di violenza, ed era una violenza appresa, inoculata, ma non per questo giustificata. Poi mi sono fermato, ho smesso di bere, non ho più ucciso animali e ho riconosciuto che per tutta la vita ho obbedito al tipo di maschio che mi è stato chiesto di essere».
Si sente in colpa?
«No».
Liberato?
«Se mai, più libero. Mi seccherebbe se questo fosse il mio ultimo libro, se morissi prima di scriverne un altro. Però sa che ci ho pensato? Mi sono detto che fila tutto così liscio, che i sentimenti che ho descritto sono tutti forti ma piani: è tutto così nuovo e chiaro, per me, che sembra un testamento. Michelangelo, a novant’anni, disse: proprio ora che ho imparato a scolpire, mi tocca morire. Voglio dire che ci vuole tempo per migliorare e io ho appena iniziato».
È il bello della vecchiaia?
«L’età ha solo questo di bello: non fai progetti a lunga scadenza. Quando te ne accorgi, capisci che hai poco tempo e non lo sprechi a recitare e contenerti. Per me, almeno, è stato così: ho cominciato a essere l’uomo debole e timido di cui mi vergognavo e che, sotto una coltre di pudore e giochi e perfidie, sono sempre stato».
Lei non è il solo. Lo ricorderemo come il tempo dei maschi pentiti.
«E siamo tutti in grande ritardo. Però io non sono pentito: se lo fossi, in fondo, parlerei da vittima. Mi interessa raccontare cosa si può scoprire quando si libera la propria naturalità da codici di comportamento, ipocrisie, pretese. La naturalità non è istinto: è la capacità di esprimere i propri sentimenti. Ci ho messo trenta libri per arrivare a scrivere di cosa provo».
Crede sul serio che si possa essere sinceri?
«Credo che ci si possa liberare, gradualmente, di tutte le maschere. È un processo che serve a capire le ragioni per cui le persone mentono: le debolezze. Perché vado a fare una scalata senza l’imbraco? Perché mi dico che se torno a casa vivo, dimostro di valere qualcosa: poi la faccio e voglio farne una più difficile. Non se ne esce che morendo».
Lei si fida della montagna?
«Neanche un po’. Ma esiste la montagna esagerata, che ho vissuto e sfidato per tutta la vita, e che ha ammazzato molti miei amici. La stessa in cui sono stato cresciuto, dove andavo a caccia con mio padre e mio nonno. E poi esiste la montagna che ti protegge e abbraccia, che ti nasconde, come succede al mio protagonista. In verità, anche quella esagerata mi nascondeva: completava la mia finzione, mi dava il palco per la mia recita. In entrambi i casi, per me la montagna è stata e sarà sempre farmacia. Sto bene solo quando vado lì, di notte, e mi metto in ascolto della notte».
E cosa sente?
«Il passo della volpe, il gridare della martora, il rauco dei barbagianni, il vento che muove gli alberi. Riconosco il faggio o il larice dal fruscio delle foglie».
E le serve?
«Mi fa stare bene tanto da darmi il coraggio di abbracciare quello che sono, che è cosa tutt’altro che semplice e liberatoria: può essere terrorizzante. È la ragione per cui nel libro ho portato il mio protagonista a sentire un’attrazione sessuale per un suo amico. Volevo contrastare la cultura alpina, che lo fa reagire con un moto di schifo verso se stesso. Io per primo non ho voluto fare i conti del tutto con quel sentimento: nella storia, l’amico del protagonista muore in un incendio. Vede quanto sono meschino? Vede quanta paura ho ancora? La letteratura non è che questo: paura di sé stessi».
E quando andava a caccia aveva paura?
«Non ci pensavo. Sono cresciuto in una famiglia di cacciatori: uccidere animali era come farsi il segno della croce. Un vecchio signore di Erto dava a me e ai miei fratelli 5 lire per procurargli i pulcini appena nati, ancora implumi: ne era ghiotto. Glieli portavamo vivi. Poi, un giorno, ci chiese di portarglieli morti: ci insegnò a ucciderli schiacciando loro la testa. Eravamo bambini, ci fidavamo di lui: come potevamo opporci? I bambini sono sempre strumenti nelle mani degli adulti, lame che loro decidono come e quanto affilare. Sono davvero fiero soltanto di aver capito da solo quanto fosse sbagliato quel modo di stare al mondo e di averlo saputo rigettare. Ma quanti sono in grado di dire, dopo aver visto ammazzare cervi per decenni: che diritto abbiamo di farlo? A me è successo forse per caso, per fortuna, per qualche bel libro che ho letto. Ma non era scontato. Mio padre ha mandato in coma mia madre tre volte: quanti, come me, sono nati in case dove la violenza era normale?».
Lei vuol bene alla gente?
«Può chiedere qui in giro. E mi dispiace non essere utile abbastanza per gli altri. In molti mi scrivono per raccontarmi che i miei libri li salvano. Ma è poco. Dovrei andare in Africa e aiutare i bimbi che soffrono».
E perché non lo fa?
«Perché sono un egoista e un opportunista. Sento che la vita mi sfugge, e allora voglio starmene con lei».
Come mai non è andato via da Erto?
«Perché ho qui le mie radici. Io vivo di ricordi terribili, che sono una garza, e li tengo vivi in tutti i modi perché mi danno la misura esatta di quello da cui mi sono discostato. Alla fine, sa perché non sarò mai felice? Perché mi hanno sottratto l’infanzia. Io e i miei fratelli volevamo solo non essere picchiati ed essere un po’ amati. Mia nonna, a Natale, ci regalava il carbone: diceva che eravamo stati cattivi, in verità non aveva i soldi per regalarci niente e anziché ammetterlo, ci trattava da canaglie. Alla fine, ci convincemmo di esserlo».
Preferisce amare o essere amato?
«Amare. E penso di saperlo fare nel modo migliore: non dando fastidio. Di solito, chi m’ha detto ti amo mi ha reso la vita un lavoro usurante».
Cosa la commuove?
«I miei ricordi. I cani. I libri. Questo posto. La vista».
Cosa desidera più di tutto?
«Che la gente mi creda».