Il campo 20 di allenamento del “paradiso del tennis” (i californiani lo hanno definito così) del primo Masters 1000 dell’anno, il Bnp Paribas di Indian Wells, è gremito come un piccolo Centrale anche se non ci sono Federer/Nadal/Djokovic a palleggiare ma due italiani: Sinner e Berrettini. Ma l’osservato speciale resta il ragazzo dai capelli rossi: «Ho sbagliato quel colpo?», sussurra Jannik a Simone, che gli risponde con un filo di voce a prova di lettura del labiale. E ridono. «Dai, che te lo ricordi, pensaci bene…», arringa il tennista al coach. Complicità, questa sembra la parola nuova. E poi le parti sono invertite: quello serio, o serioso, è proprio il nuovo coach che sa di vivere la notte prima dell’esame. Il ragazzo invece è rilassato, non teso e concentrato come nel passato, nella precedente vita tennistica. Cercate le differenze? È tutto qui. Non è nulla? Forse è tutto. Basta ascoltare le parole del diretto interessato, con alcuni passaggi chiave.
A Indian Wells finisce il rodaggio e si entra nel vivo di “Jannik 2.0”: com’è il nuovo Sinner?
«Ma come deve essere? Sono sempre io: uguale. Sono sempre lo stesso.
Cioè una persona che comunque vuole divertirsi in quello che fa, e che cerca nello stesso tempo sempre di migliorarsi».
Ecco, anche dopo questo terremoto della sua vita, resta di base questa trasmissione di semplicità.
«Ho fatto quello che pensavo fosse giusto per me, anche se la decisione non era semplice e non lo è stata.
Abbiamo fatto un lavoro incredibile, so da dove sono partito, io, ragazzino di 13 anni e mezzo: avevo lasciato casa per andare a Bordighera, e sono arrivato nei primi dieci del mondo».
Eppure…
«Ho un obiettivo in testa. Ci vogliono gli obiettivi. Ora provo a essere un pochettino più aperto».
E qual è l’obiettivo?
«Non voglio dirlo. Non oggi. Posso dire però che sono sicuro di quello che ho e di dove voglio arrivare».
E quindi qual è stato il messaggio di Jannik Sinner al mondo in questa vicenda del cambio di allenatore?
«Che non guardo ai risultati, ma a come sto in campo, alle cose che secondo me sono da migliorare. Per questo ho preso questa decisione che, ripeto, non è stata semplice: mi sono buttato nel fuoco».
E a vent’anni poi… ma quanti ragazzi decidono una cosa così grande?
«Ma io sono così, anche se in campo sembro tranquillo… beh, anche fuori campo lo sono, ma ho le mie idee, qualche volta. E mi sembra giusto averle».
E a queste idee ha fatto seguire i fatti, anche a chi non voleva capire.
«Sì, l’ho fatto. Adesso vediamo: le cose che ho non me le prende nessuno. Ci sono soltanto cose da aggiungere».
Scontato chiederle come vada con coach Vagnozzi.
«Con Simone va molto bene. Mi sembra di conoscerlo già da tanto tempo. Non ci raccontiamo barzellette: ha personalità, e penso che lui possa darmi quello che cercavo. Poi ognuno pensi e dica quel che gli pare».
C’è qualcosa che l’ha infastidita?
«No, preferisco lasciare perdere.
Anzi, una cosa scherzosa sì: in un’intervista gli hanno fatto dire che è milanista, invece è interista...».
Questa per lei, che tifa Milan, sarà una macchia grave…
«Ah, ah, ah… E lui subito mi ha detto che andava bene tutto ma quello no, era impossibile. Così viviamo il derby quotidianamente. Comunque: siamo due personaggi che stanno bene insieme».
Con l’Italia c’è sempre stata una sorta di luna di miele, l’unico momento di attrito per l’assenza all’Olimpiade di Tokyo. Ora che si aspetta?
«Beh, a me piacerebbe essere importante per i giovani. Sì, per i ragazzi: un esempio. Questa per me è la cosa più importante».
Siamo davvero nella seconda vita di Jannik, il ragazzino è diventato uomo.
«Eh, sì. Sono cresciuto: perché giorno dopo giorno non puoi fare altrimenti. E ho capito che devo guardare solo me stesso. Poi quello che dicono alcuni ormai non lo leggo neanche più, sono sincero».
C’è qualche riferimento particolare?
«Ma no, nulla. Ripeto, spero sempre di essere visto per quello che faccio, cioè un tipo che si diverte a fare le cose, come sto facendo, che cerca di stare bene in campo, che lavora tanto. Perché dalle difficoltà, che sono inevitabili, ci si tira fuori — o almeno io mi tiro fuori — col lavoro.
Poi, certo, anche le vittorie aiutano e la fiducia aumenta. Ma il lavoro è la base, ed è quello che stiamo facendo».
Avevamo già cominciato a vedere, in campo, il pugnetto dopo i punti importanti: segno di una cattiveria sportiva, il sale agonistico.
«Beh, eravamo in Coppa Davis, dove la situazione è un po’ diversa perché giochi per tutta l’Italia, cosa che mi piace peraltro. Insomma, voglio dire che è come una condivisione».
Davis nella quale lei è imbattuto…
«Solo in singolare».
Ma, alla fine: in campo è più istintivo o razionale?
«Sono più istintivo, è la mia natura.
Però sto studiando, cercando di ragionare di più. Entrare in campo con un’altra mentalità, a prescindere dalla conoscenza dell’avversario. Su questo ora ci stiamo focalizzando».
Che tempi si è dato?
«Per i miglioramenti? Non c’è una data: esiste un giorno che segue l’altro. Non ci sono mesi: mi alleno, e ogni giorno è un’opportunità per migliorare. Semplice, no?».