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 2022  marzo 12 Sabato calendario

Raoul Bova si fa prete. Intervista

«Pronto ad ascoltare, forte e complesso perché un sacerdote è prima di tutto un uomo. Don Massimo non è un supereroe». Raoul Bova, 50 anni, raccoglie l’eredità di Terence Hill in Don Matteo 13 (regia di Francesco Vicario, Luca Brignone, Riccardo Donna), dal 31 marzo su Rai 1. Ci sono ruoli che segnano una svolta nella carriera di un attore, la serie col prete detective realizzata da Lux con RaiFiction (la dodicesima stagione ha chiuso con quasi 7 milioni e mezzo di spettatori) si aggiunge — nel percorso televisivo di Bova — a La Piovra e Ultimo, la fiction di Canale 5 in cui interpretava il capitano dei carabinieri che mise faccia a terra Totò Riina. « La piovra » racconta l’attore «era un grandissimo successo in tutto il mondo. Dopo Michele Placido, il mitico commissario Cattani, e Vittorio Mezzogiorno, attore straordinario che venne a mancare nel 1994, per la settima stagione chiamarono me: un ragazzino. Il regista Luigi Perelli fu quasi un papà. Ero concentratissimo su quello che facevo, non volevo sbagliare. Un po’ come adesso».
Non è cambiato niente?
«Nulla. Senti solo la responsabilità».
Com’è andata sul set di “Don Matteo”?
«È una grande famiglia. Con Terence, Nino Frassica, Nathalie Guetta, Maria Chiara Giannetta, Maurizio Lastrico, Pamela Villoresi, Flavio Insinna mi sono sentito accolto. A 50 anni, dopo aver fatto tanti ruoli — d’azione, romantici, anche Francesco d’Assisi, un santo — mi facevo domande. Dopo aver girato Buongiorno mamma con la Lux, mi chiama Luca Bernabei: “Se ti proponessi Don Matteo?”. Mi sono sentito orgoglioso, pensavo di girare una puntata. Il progetto era diverso e sono subentrate le domande: come, perché, come sarà?».
Chi è don Massimo?
«Per me doveva avere dentro — e fuori — qualcosa di francescano, porta una croce di legno, sta a contatto con la gente, la terra, gli alberi. È un prete fisico, forte, che comunica sicurezza.
Gira in moto, ha viaggiato».
Se dovesse definirlo?
«Un misto tra un missionario e un combattente che lotta per la giustizia. C’è un filo rosso che lo lega a don Matteo: in un momento in cui la morte lo fa vacillare decide di seguire la fede. Don Matteo è il suo mentore, gli dà la possibilità di entrare in seminario, gli spiega come convogliare i dubbi, il malessere, la voglia di fare il bene trasformandoli in qualcosa di concreto».
La preoccupava il confronto con Terence Hill?
«L’ho detto subito: molto bello il personaggio, mi piace moltissimo ma lo faccio a una condizione: voglio incontrare Terence, guardarlo negli occhi e sentire che condivide questa scelta. Il passaggio di testimone me lo deve dare con uno sguardo, come un fratello maggiore, un padre che dice: “Vai avanti e continua tu”. Volevo da Terence un abbraccio, e quell’abbraccio c’è stato».
Gli ha chiesto consigli?
«Certo. Mi ha detto: “Sarai un prete nuovo, avrai il tuo nome ed è giusto che trovi la tua strada e il modo di farlo”. A tutte le domande rispondeva: “Capirai da solo come fare. Sono contento che sei tu, scegliti il nome e capirai la tua missione”. La storia è scritta benissimo (la firmano Mario Ruggeri, Umberto Gnoli, Dario Sardelli, ndr), don Massimo è davvero un prete nuovo. Gli sceneggiatori hanno accolto la mia richiesta: è un prete aperto che ti guarda negli occhi e non ha paura di affrontare le difficoltà. Don Massimo è forte e umano. Come san Francesco anche lui ha combattuto, dentro ha un grande dolore e si fa domande. Non è facile gestire una parrocchia».
Non rida, lei è anche un prete bello. I rapporti con le donne?
(Ride) «Il tema è serio. Se n’è occupato anche papa Francesco perché privarsi dell’affettività, è un argomento importante, anche i sacerdoti hanno diritto a essere amati. Ma non possono avere rapporti sentimentali. Don Massimo prima del seminario ha avuto una storia con una donna, che tornerà nel racconto. Vivrà momenti in cui è in difficoltà. È prete ed è un uomo».
Vacilla?
«No, ma sicuramente ha un cuore. I preti devono avere fascino, saper trascinare gli altri. Ricordo padre Richard, occhi azzurri, che durante il terremoto di Haiti ci spronava: “Forza ragazzi, dobbiamo andare lì”. Lo seguivamo tutti».
Si è interrogato sul bene e il male?
«Certo. L’uomo può essere buono e cattivissimo: come si può arrivare a fare quello che fa Putin? Stiamo perdendo l’umanità, la fede, la speranza. Ho parlato con vari parroci prima di girare la serie, tanti mi hanno detto: il male ci sta accanto, sta a noi andare avanti, credere nell’altro e comportarci nel modo giusto. In Europa è bastato un attimo per far scoppiare la guerra».
Che ha capito?
«Che se oggi vai in piazza con la busta della spesa come l’uomo a piazza Tienanmen il carrarmato ti schiaccia. C’è bisogno di fratellanza, di un appello forte, un attestato di vicinanza. Se, per assurdo, il Papa andasse in Russia e lo abbracciasse per un quarto d’ora, sono sicuro che Putin appoggerebbe la testa sulla sua spalla, si metterebbe a piangere e chiederebbe scusa».