la Repubblica, 12 marzo 2022
Gli animali in tempo di guerra
L’identificazione è scattata quando li abbiamo visti abbracciati ai loro animali. Ed è stata immediata: può capitare anche a me, ci siamo detti, e abbiamo cercato con lo sguardo il nostro cane o gatto, provando a immaginarci come avrebbe reagito se all’improvviso lo avessimo avvolto in una coperta e trascinato fuori, mentre la città esplodeva. Che cosa avrebbe pensato, se ce lo fossimo portato di corsa in un rifugio improvvisato, una metropolitana imbottita di gente o una cantina, al buio, con acqua e cibo che non bastano, e la paura? Oppure al freddo, in un trasportino di plastica, in cammino per strade interminabili coperte di neve, costeggiate da filo spinato; o in un treno, stipato di donne e bambini e cose? Lui si sarebbe affidato. E in tutte queste assurde circostanze, ci siamo detti, noi non avremmo smesso di abbracciarlo. Per questo, quando abbiamo visto gli ucraini insieme ai loro cani e gatti, ci è bastato un istante per capire che sono come noi, che loro sono noi. È una cosa nuova e strana insieme, perché ne abbiamo visti tanti, di rifugiati e migranti, profughi di guerre pazzesche, e ci siamo commossi di fronte alle loro storie. Ma l’effetto identificazione non c’era stato. Serviva un ponte, e il ponte erano loro: questi animali.
La presenza delle creature non umane nelle immagini dei teatri di guerra non è mai stata così dirompente. Non che prima non ci fossero. Spesso anzi queste creature sono state al fronte, al fianco dei soldati. Nella Grande Guerra, ricorda il libro di Diego Leoni La guerra verticale. Uomini, animali e macchine sul fronte di montagna 1915-1918, masse di animali – muli, asini, cavalli, e non solo – trasportarono nelle trincee dolomitiche strumenti, armi, materiali, soldati, prigionieri. E sotto le bombe, di guerra o di pace, innumerevoli animali sono caduti, anche per valutare gli effetti (prevedibili) degli armamenti. Tra loro le migliaia di capre, maiali e ratti sacrificati nell’esperimento nucleare americano condotto al largo dell’atollo di Bikini nell’estate del 1946. Ne parlò anche Calvino, che si chiese: «che cos’avranno pensato le capre, a Bikini?». Possiamo ancora vederle nelle foto in rete, queste capre: ingabbiate in piccole strutture metalliche, con accanto un secchio d’acqua e un po’ di paglia sparsa tutt’intorno.
Ora però è diverso, perché è la normalità degli animali ucrani che c’interpella, siano essi domestici o in cattività, come quelli del Feldman Ecopark di Kharkiv, bombardato a fine febbraio: 2000, per la maggior parte uccisi e feriti, con i pochi superstiti terrorizzati sparsi per la città. Che cos’avranno pensato i lupi rossi a Kharkiv? Difficile dirlo, ma la risposta in fondo la conosciamo già: avranno avuto paura, esattamente come noi.
Per secoli una filosofia sorda alle loro voci ha scavato le sue trincee nel dualismo tra noi e loro. Cartesio, e non era il solo, li vedeva come macchine, orologi animati. Un secolo e mezzo di evoluzionismo e svariati decenni di ricerche di etologia, zoologia, primatologia, antropologia multispecie e più umane filosofie hanno però lavorato a colmare queste trincee. Ci hanno fatto capire che il loro mondo è il nostro mondo, che il loro agire e la loro emotività esistono e si combinano con le nostre. Anche per loro dormire in un rifugio significa soffrire il freddo e la fame, e sentire l’insicurezza. Anche loro, come noi, sono rifugiati e migranti. La loro pena è la nostra pena. Lo confermano le immagini.
Eppure, quanti li hanno visti (e ancora li vedono) come creature imperfette, perse in un abisso di alterità e nell’oscurità dei loro istinti? C’è cascato pure Emmanuel Levinas: proprio lui che, in risposta all’Olocausto, costruì sul richiamo infinito e senza parole del volto dell’Altro la sua etica della responsabilità. In un saggio intitolato Il nome di un cane o il diritto naturale, Levinas, ebreo di Lituania che sarebbe diventato uno dei più grandi filosofi di Francia, racconta la storia di Bobby, cane del lager. Comparso dal nulla, ogni sera Bobby aveva l’abitudine di accogliere scondinzolando i prigionieri che tornavano dal lavoro forzato. Solo loro però: non i nazisti, che infatti presto lo fecero sparire. Bobby fu l’unico a guardarci come esseri umani, dice Levinas, e in ciò fu l’«ultimo kantiano della Germania nazista». Levinas dice questo, e però contemporaneamente aggiunge che a Bobby mancava «la mente necessaria per universalizzare». Non aveva un volto, Bobby. Solo gli umani ce l’hanno e quindi solo loro è il regno dell’etica. Eppure, che cos’era quello scodinzolare se non un linguaggio, e che cos’era quel venir incontro soltanto ai prigionieri se non l’espressione di un’etica? Distingueva tra il bene e il male, Bobby, anche senza la “mente” o il concetto. Con la sua specifica intelligenza riusciva a leggere segni intorno a sé che gli permettevano di comunicare con gli umani che gli interessavano.
La verità è che, finché le nostre morali si baseranno su dualismi e petizioni di principio, ci sarà sempre spazio per nuove trincee e nuove esclusioni: umane e non umane. E invece la biologia ci precede, facendoci trovare vicini già da sempre, nei rifugi e nelle dimore: ce lo dice tutto il cammino evolutivo fatto insieme. Perché, come ci ricorda un’altra filosofa, Donna Haraway, le specie nascono solo quando s’incontrano; e umani e cani sono specie compagne. I nostri geni si parlano come i nostri giochi, siamo emersi insieme dalla stessa alba evolutiva: quella in cui gli ominidi erano prede, e nel cercare rifugio si sono trovati insieme a piccoli lupi, che hanno preso con sé, selezionando quelli che percepivano come più docili o affidabili. È da questo incontro che è scaturita sia la nostra specie che, da alcuni di quei lupi, il cane.
E dinamiche di coevoluzione si riconoscono con altre specie compagne o commensali: gatti, cavalli, maiali, bovini... Siamo vicini nell’essere al mondo. Per questo, i nostri animali ci avvicinano agli altri, e ci rendono umani. Sono loro i nostri corridori umanitari.