Corriere della Sera, 12 marzo 2022
Intervista ad Arrigo Sacchi
«Molti soldi, poche idee». Non ci gira intorno, Arrigo Sacchi: dritto al punto, anzi droit au but, come dicono i francesi. All’attacco, senza giocare in difesa, faccia a faccia: la filosofia di una vita, dentro e fuori dal campo. «L’eliminazione del Psg è stata clamorosa, ma non mi ha sorpreso. Ho sempre avuto la mia idea sul loro progetto. Il Real di Ancelotti invece ha giocato la partita perfetta. E anche questo non mi ha sorpreso».
Cosa pensa del progetto del Psg?
«Che non è un progetto. Come ha detto George Bernard Shaw, il calcio è l’arte di comprimere la storia universale in 90 minuti. Nel calcio, come nella vita, il talento non basta. Come non bastano i soldi. È il gruppo che vince, mai l’individuo. Il gioco e l’organizzazione sono come la trama per uno scrittore e lo spartito per un musicista. Il segreto di tutto sono le idee. Sempre, ovunque. E di idee al Psg ne vedo poche».
Messi, Neymar, Mbappé, Di Maria, Verratti, Donnarumma: i Galacticos degli anni Venti. Eppure la Champions anche quest’anno resterà un miraggio.
«Affidabilità morale, modestia, etica del lavoro, generosità, entusiasmo. Queste sono le fondamenta di una squadra vincente. Non i nomi, non le individualità, non i soldi. Fondamentale è avere una società che ti sostenga in tutto e per tutto. Io ho avuto la fortuna di trovare Berlusconi ai tempi del mio Milan».
I soldi non fanno la felicità, però ti permettono di avere i migliori. Non un vantaggio da poco.
«Il denaro, se non è gestito bene, con intelligenza, in uno spogliatoio come in un ufficio qualunque è un problema, ti torna contro. Se mancano società e allenatore, le troppe differenze di stipendio e i privilegi spesso fanno esplodere gli spogliatoi, perché creano invidie e rivalità. Lui guadagna più di me? Allora perché devo correre io per lui?».
A Parigi sembra mancare anche leadership. Messi fa la figura di uno che passa di lì per caso.
«Non è a suo agio. Conta anche il fatto che non è più un ragazzino, l’età inizia a sentirsi. I campioni di una volta riuscivano a compensare col carattere, la personalità. Oggi meno. Mi viene in mente Maradona. La sua intelligenza superiore gli consentiva di essere centrale rispetto alla squadra anche quando non stava bene».
Mancano i capitani veri oggi?
«I capitani veri sono fondamentali, perché indicano a tutti la strada da seguire. Baresi aveva l’intelligenza di crescere sempre, di migliorare sempre, di non sentirsi mai arrivato, questo lo ha reso un leader, questo lo ha reso Baresi. Quando allenavo il Rimini in C1, il povero Frosio veniva ad allenarsi con 39 di febbre. Devo dare l’esempio, diceva».
Donnarumma l’ha combinata grossa. Ha sbagliato a scegliere Parigi?
«Ha sbagliato a scegliere i soldi. L’ho detto anche a suo padre e sua madre, l’estate scorsa, qui a Milano Marittima. Doveva restare al Milan non tanto per riconoscenza, ma perché era il posto ideale per crescere. Mai lasciare i posti in cui si sta bene. Ma resta un grande campione, lo conosco da quando era poco più che un bambino, nelle nazionali giovanili. Si rialzerà».
Negli ottavi di Champions resta solo la Juve. Quanto siamo lontani dall’Europa, come calcio italiano?
«Ci stiamo avvicinando. Ma serve ancora più coraggio. L’Inter a Liverpool ha fatto una grande partita, ma doveva osare di più nel finale. Bisogna essere padroni del gioco e per farlo non si può avere un sovrannumero di giocatori in difesa».
Continuiamo a essere troppo difensivisti?
«Il calcio nelle intenzioni dei padri fondatori nasce come gioco offensivo, siamo noi italiani che l’abbiamo reinterpretato con una logica opposta. Le squadre straniere giocano sempre per vincere, le nostre ancora no, non sempre. La vera lezione in serie A la stanno dando le piccole».
Il Sassuolo ha battuto Milan, Inter e Juventus. È la sorpresa dell’anno?
«Sì, perché l’Atalanta è ormai una grande, considerarla una piccola sarebbe un errore. Dionisi fa giocare la sua squadra solo e soltanto per vincere, altro che catenaccio. Non ha battuto a caso le tre grandi. Così anche l’Empoli, il Verona, lo Spezia. Mi piace anche il Torino, ci vuole ancora un po’ di tempo ma Juric è molto bravo. Le grandi devono imparare dalle piccole, sembra un paradosso ma non lo è. Usciamo con coraggio dall’italianità e avviamo un percorso di innovazione: si può fare».
Da anni non si vedeva una lotta scudetto tanto combattuta. Chi vince?
«Chi oserà di più, chi avrà meno paura».
La favorita resta l’Inter?
«Ha più qualità, esperienza. Ma il Milan può vincere, è la squadra più europea di tutte. A patto però di essere sempre un collettivo, solo così compensa i difetti dell’inesperienza».
I rossoneri hanno pagato gli infortuni.
«Eppure sono lì davanti a tutti. Quando perdono uno per infortunio, dalla panchina ne entra un altro e quasi nessuno se ne accorge. Penso agli ingressi di Kalulu o di Gabbia, che hanno giocato all’altezza di Kjaer. Il Milan di Pioli gioca a sistema puro, due difensori contro due attaccanti. C’è un’idea di gioco che, piano piano, è stata recepita dal collettivo. Dovesse vincere, sarebbe un’impresa storica, anche per la gestione oculata dei conti che sta facendo la proprietà. Diciamo che sarebbe una vittoria doppia».
E il Napoli? La sconfitta col Milan è stata pesante.
«Paga l’incostanza e gli sbalzi d’umore. Serve una mentalità vincente, che però non è facile creare. Ma mancano ancora due mesi e mezzo, Spalletti ci deve provare fino alla fine».
La Juventus è la squadra più in forma, 14 partite senza perdere. Ma realisticamente è ancora in corsa?
«Lo è sempre. Allegri sta facendo progressi. Ora però non deve fallire in Champions. La sua Juve, che se la vedrà col Villarreal in Champions partendo dall’1-1 dell’andata, ha investito tantissimo, ma recentemente non ha fatto molto in Europa. Nemmeno quando c’era Cristiano Ronaldo. Significa che il collettivo conta più del singolo. D’altronde anch’io ho vinto senza Van Basten. La chiave in Europa è giocare per vincere, come ha fatto la Nazionale all’Europeo».
A proposito: che è successo agli azzurri?
«Mancini ha fatto un capolavoro, ma poi doveva cambiare qualcosa. Come diceva l’economista e saggista Peter Drucker: “Se una cosa funziona, correggila”. Dopo la vittoria, è mancata l’attitudine alla vittoria. Non erano abituati a vincere e a gestire il successo, che porta responsabilità e alza le difficoltà. Per quello credo che dopo il successo di Londra fosse necessario cambiare qualcosa».
E ora che si fa? Lo spareggio è un dentro o fuori da brividi. Il secondo Mondiale consecutivo da spettatori sarebbe un fiasco epocale.
«Anche all’Europeo sembravamo spacciati. Il segreto è uno solo: come l’estate scorsa, occorre essere squadra, collettivo, pensare con una testa unica. Giocare per vincere. E non avere paura. Io ho fiducia: al Mondiale ci saremo».