la Repubblica, 11 marzo 2022
Intervista a Daniele Garozzo
ROMA – L’appuntamento è una lunga contrattazione: «Mi dispiace, devo rimandare, oggi sono di turno in reparto, appena posso chiamo». Daniele Garozzo da Acireale, 30 anni ad agosto, campione olimpico di fioretto a Rio, argento a Tokyo, è l’autore del tweet più sincero dell’anno. E anche più ironico: c’è lui che infilza una pila di libri. Il messaggio è quello di un campione che finalmente ce l’ha fatta anche nello studio. «Dopo 10 anni e 5 mesi mi laureo in medicina». Leggermente fuori corso, all’università di Tor Vergata, il 22 marzo, tesi di chirurgia vascolare.
Ha scritto: «Non mollate, ragazzi.
E non credete alla bugia».
«Sì: studio e sport non sono incompatibili. Anche se fanno di tutto per fartelo credere. È durissimo tenere insieme allenamenti, competizioni, lezioni, esami. Sto parlando di un’università dove si frequenta, non quella online, e di un sistema scolastico dove l’atleta è sempre penalizzato. Non voglio sconti, né vantaggi, ma quando hai finali mondiali che coincidono con appuntamenti di studio devi scegliere, e se vinci da una parte perdi dall’altra. Non c’è nessuna flessibilità, se chiedi di spostare un appello sembri un capriccioso, nove mesi su Istologia sono stati un lunghissimo assalto. Lo dico a chi nel governo e nell’istruzione si occupa di questi temi: chiamatemi, sono a disposizione, per dare consigli, per lavorare su un cambiamento.
Ministro, dobbiamo poter dare alla società un ritorno che non sia solo quello delle medaglie sportive. Ci ho messo 5 anni, dal 2011 al 2016, per dare gli esami del biennio, sono andato più spedito quando mi hanno dato un tutor dopo l’oro di Rio. Il mio percorso universitario è molto migliorato. Grazie alla professoressa Giulia Donadel che mi ha consigliato e guidato. Ma i sacrifici sono stati tanti, non solo perché mi portavo i libri in trasferta, ma perché ho dovuto adattare la vita agli impegni, organizzare i ritagli di tempo, ottimizzare ogni singolo momento della giornata: sveglia presto, pochissime vacanze, nessun weekend, niente cene fuori con la fidanzata, sabato allenamento, domenica studio. Ma la mia dannazione continua, si chiama esame di diploma per la specializzazione».
Perché dannazione?
«Perché si dovrebbe tenere a luglio nelle stesse date in cui sono impegnato al Cairo nel Mondiale, l’unico titolo che mi manca. E l’esame c’è una volta all’anno, se lo salto devo aspettare il 2023. Significa che a scegliere per me sarà non la mia passione, perché io vorrei fare medicina sportiva, ma la convenienza. Forse mi indirizzerò verso medicina generale che ha la prova a gennaio, data per me più sicura, e tra l’altro, anche se sognavo di diventare un chirurgo d’urgenza da Medici senza Frontiere, sto rivalutando la figura del medico di base. La gente per la salute ha bisogno di una persona di riferimento, vuole essere ascoltata, ma ormai la medicina è fatta di tanti specialisti, che curano solo quel tipo di problema. Una certa diffidenza ai vaccini la spiego anche così».
Poteva andare all’estero.
«Ho ricevuto molte offerte, da college di alto profilo, ma voleva dire mettere da parte la scherma, non poter partecipare ai raduni. E io già da piccolo ero fissato con Zorro e D’Artagnan. Non sarò il primo dottore in famiglia, perché mio padre Salvo è angiologo, e non sono il primo schermidore, perché mio fratello maggiore Enrico è spadista, ma sono il primo campione olimpico di casa.
Però è un peccato mettere l’atleta davanti a una scelta, non metterlo in condizioni con protocolli diversi di diventare una persona migliore. E di accompagnarlo nella sua crescita».
Lei sperava in un trattamento diverso?
«Onestamente sì. Dopo aver vinto a Rio immaginavo che avrei ricevuto attenzioni e offerte da parte degli sponsor. Ma come mi disse un dirigente di azienda: Daniele, sei troppo un bravo ragazzo. Non faccio scandalo, non vado ai reality, sono fidanzato con Alice Volpi, anche lei fiorettista, frequentiamo il centro sportivo a Frascati. Mi consola ricevere messaggi di molti genitori che mi ringraziano per essere un modello per i loro figli. Da campione olimpico a Tokyo ho sfiorato il bis consecutivo che nella scherma di oggi sarebbe stata un’enorme impresa. Ho perso in finale da Cheung Ka Long di Hong Kong, che ha meritato, è stata una bella botta, mi sono rivisto solo pochi giorni fa, prima non ce l’ho fatta. Le sconfitte ti segnano, si rifanno vive di notte, mentre il successo è un cerino che brucia in un attimo».
Come sono le sue notti di vigilia?
«Brutte. Sono teso, non mangio, vomito.
Sono molto emotivo, tante volte ho pensato di smettere. Ma appena entro nel palazzetto e salgo in pedana tutto passa. Se chiudo gli occhi però non penso agli incontri, ma a quando papà in auto mi accompagnava ad allenarmi a Modica, i discorsi che ci facevamo in quelle tre ore, alle attese di mia mamma Giuliana, ai viaggi con la squadra a Cuba, a La Coruña, a San Pietroburgo.
Lo sport in Italia si regge sulla famiglia, nei piccoli garage di provincia dove spesso tutto inizia, io tra l’altro da specializzando forse dovrò lasciare le Fiamme Gialle.
Capisco che lo sport in mano ai gruppi sportivi militari non piaccia a molti, ma se non ci fossero loro chi si occuperebbe degli atleti? Io a Parigi ci voglio andare, avrò 32 anni, mi piacerebbe essere portabandiera, perché credo di poter essere un buon esempio, ma capisco che alla pari di me ci sono Paltrinieri, Jacobs, Tamberi. Mi piacerebbe però un’Italia che in tutti i settori puntasse sui giovani. Chiediamo ai nostri campioni di resistere, anche quando non ce la fanno più, vogliamo imbalsamarli, lo dico da grande tifoso di Nadal, invece di capire che lo sport è un momento bellissimo, ma poi ci vogliono nuove armi. Per combattere anche con altri ferri».