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 2022  marzo 11 Venerdì calendario

L’Austerity del 1973


Austerity. Faticò Mariano Rumor, attempato professore di lettere deportato in uno studio televisivo con tutto il suo accento veneto, a pronunciare quella parola inglese per convincere gli italiani che dovevano cambiare vita. Era il novembre del 1973 e siccome la nostalgia è un’insidia storiografica, ma anche un sentimento di spiccata intensità, gli esiti del decretone, rivisti nei filmati dell’epoca, trasmettono le immagini di un paesone in bianco e nero, senza petrolio, e tuttavia perdutamente spensierato. «Si dice austerity – girava la battuta – perché in inglese si soffre di meno».
Serbatoio a secco, domeniche a piedi, negozi chiusi alle 19, insegne spente, spettacoli non oltre le 22, riscaldamento entro i 21 gradi, limiti di velocità, la benzina schizzò da 150 a 200 lire al litro, ma di lì a poco il prezzo si sarebbe quadruplicato.
Ecco dunque Rumor, inchinevole e attorniato dal fior fiore del portaborsismo doroteo, che passeggia ai Fori Imperiali; ecco il presidente Leone che cammina con la famiglia per andare a messa. Nemmeno le autoblù potevano circolare, garantiti solo i servizi essenziali fra i quali erano compresi i preti, designati nel dpr “ministri del culto”, ma solo in città. E multe, naturalmente, pure abbastanza salate, da 100 mila a un milione. La prima domenica se ne registrarono 1317, il primato dell’austera virtù a Trieste, mentre a Roma fu pizzicata Sylva Koscina. Ma nel complesso gli italiani si considerarono disciplinati, più o meno secondo l’approssimativo standard del primo lockdown.
Ma quasi mezzo secolo fa c’era più allegria, o forse meno consapevolezza che si trattava di una crisi epocale, la fine del boom e della crescita senza limiti, lo svelamento di una fragilità, «prepariamoci – disse l’Avvocato Agnelli – durerà a lungo». Da quel momento Pier Paolo Pasolini cominciò a elaborare la sua teoria sulla Grande Mutazione, lo sviluppo senza progresso. Nel migliore dei casi fu preso come un poeta quando era soprattutto un profeta ma nessuno lo è in patria.
Anche allora era cominciato tutto con una guerra: un mese e mezzo prima di quelle severe restrizioni varate a notte fonda, un fronte di paesi arabi aveva attaccato Israele. Ma poi, come succede qui, le cause e i riverberi della geopolitica lasciarono un po’ il tempo che trovavano; ragion per cui gli italiani vissero quel primo austerity – e quanti c’erano ancora lo vivono nel ricordo – come una specie di quaresima euforizzante fatta di sacrifici e allegria.
Di qui la messe di foto e video in rete, Youtube, Istituto Luce, Teche Rai, in cui l’occasione penitenziale irresistibilmente si combina con gioiosa e spiritosa espressività. Tutti in bici, e va bene, ma anche con pattini, monopattini, tandem, pedalò, sci a rotelle, e poi a cavallo, le più belle piazze d’Italia attraversate da cavalieri tipo caccia alla volpe, e carrozze, cocchi, landò, risciò, tutti col gusto di farsi vedere, notare, fotografare, anche allora. E la coppia che corona il sogno raggiungendo la chiesa in autobus, “Gionny e Stefania oggi sposi” sul parabrezza; e le immancabili leggende metropolitane tipo che a Messina c’era un signore che si spostava su un elefante; e naturalmente la canzone semifinalista a Canzonissima, e sullo schermo si affaccia Tony Santagata con la mezza riga: “Abbassa la corrente di voltaggio/ bisogna risparmiare fino a maggio,/ mia moglie ritornando dalla spesa/ mi dice non tener la luce accesa”, donde il ritornello in ameno coretto: “Austerity austerity/ se non vuoi andare a piedi compra l’asino”. Al cinema, d’altra parte, entrava in lavorazione “Conviene far bene l’amore”, con Gigi Proietti e il giovanissimo De Sica, là dove l’esaurimento delle fonti energetiche era surrogato dall’energia sessuale in sgangherata e arrapatissima parodia reichiana.
In buona sostanza una malattia reale, scrisse quel grande osservatore che tanto ci manca, Edmondo Berselli, venne trattata con una “cura figurativa”, rivelando la solita creatività “talora deplorata, talvolta così inaspettatamente utile”. Se non altro un diversivo ai primi agguati del terrorismo, alle rivolte nelle carceri, all’epidemia di colera. Dopo tutto, le domeniche a piedi non durarono più di quattro mesi, quindi venne Pasqua, le targhe alterne e con l’estate la sorpresa che non si era poi risparmiato tanto, anzi nulla. Ma lo choc, sia pure a modo nostro, si ricorda ancora oggi. Era l’addio all’età dell’oro, la pietra sopra i gloriosi anni della democrazia a portata di mano.