Linkiesta, 11 marzo 2022
L’ego smisurato di Federico Rampini
L’altro giorno un tizio mi si è avvicinato e mi ha detto: io la leggo sempre e la stimo molto. Ho risposto: anch’io mi stimo molto. Ha concluso: sì, si vede dalle cose che scrive. Tutto questo per dire che non ho niente contro l’ego: ho moltissimo ego, e ci vado molto d’accordo.
D’altra parte, i temi di cui scegliamo di occuparci dicono qualcosa di noi, e non avrei deciso di scrivere del commercio del sé e del fatto che il mondo è una vetrina per vendere prosciutti e divenire noi stessi prosciutti (esce la prossima settimana: accattatevill’) se non fossi dotata anch’io d’una certa qual vocazione a mettermi in vetrina.
È perciò con sorpresa e ammirazione e un qualche spirito competitivo che, di tanto in tanto, scopro gente che ce l’ha più grosso del mio, l’ego. La settimana scorsa sfogliavo una raccolta di saggi di autori italiani. Nelle note – il posto in cui se siete me mettete i vostri fragili nervi e lo spirito di patate, e se siete uno che ci tiene a venir preso sul serio mettete la bibliografia – ci sono giochi di specchi mica male.
Il saggio di Federica D’Alessio ha in nota «Ne avevo parlato anche io nell’articolo [eccetera]»; quello di Federico Faloppa ci invita in nota a «cfr. Federico Faloppa» in vari contesti, pubblicazioni di Oxford, della Crusca, e un suo libro di qualche anno fa; l’affare si fa incestuoso quando si arriva alla bibliografia di Vera Gheno, che prima invita a «cfr. anche Vera Gheno», poi in una nota successiva mette un libro di Faloppa, e poi uno di Faloppa e Gheno.
Ma, poiché l’Italia è un po’ il Café Russe (il ristorante che doveva essere l’unico aperto a Los Angeles negli anni Novanta, giacché tutti i protagonisti di Beautiful andavano sempre e solo a cena lì), il bello arriva nelle note successive, quelle al saggio di Jennifer Guerra. La quale ha in nota Faloppa e Gheno (in Italia non si può fare la rivoluzione perché ci conosciamo tutti), ma anche un post di Guerra stessa su Medium.
Cinzia Sciuto ha come prima nota un articolo su Micromega di, indovinate, Cinzia Sciuto; ma la sua mia nota preferita è la quarta, in cui – con un distacco che neanche Otelma – si cita come fosse un’altra: «Sul velo e il suo significato, non solo nella tradizione musulmana, ho parlato diffusamente in C. Sciuto, “Non c’è fede che tenga”». In note successive cita altri due suoi articoli (Sciuto si stima molto: se non la capisco io); l’ultimo che cita, alla nota 15, è introdotto dalle parole «Rimando al mio». Sembra ieri che colpevolizzavamo i baroni universitari che assegnavano come testi per l’esame quelli scritti da loro stessi.
Quando in quel volume sono arrivata alle note degli autori (due, se non ho contato male) che in bibliografia avevano qualcuno che non fosse lo specchio, mi sono sembrati dei campioni di sobrietà e basso profilo, praticamente gli eredi del Dalai Lama.
Tuttavia questi dilettanti hanno tutto da imparare da Federico Rampini, un maestro per tutti noi piazzisti di prosciutto. Quando ieri ho visto il suo ultimo capolavoro di vetrinista sono stata molto felice di avergli tributato il giusto riconoscimento nel mio imminente prosciutto (non ricordo se vi ho già detto che esce la settimana prossima e accattatevill’).
Rampini fu infatti precursore d’una metodologia di piazzismo che poi in pandemia hanno (abbiamo) adottato tutti, ma lui lo faceva da prima, lui lo fa meglio, la sua spudoratezza è un talento naturale, non un gusto acquisito. È un po’ il Funari degli eleganti, Rampini: ha il commercio nell’anima.
La ragione per cui l’avevo citato è che, vivendo per la maggior parte del tempo negli Stati Uniti, Rampini faceva già da prima la cosa che in pandemia abbiamo cominciato a fare tutti: collegarsi coi programmi televisivi da casa e a quel punto, nella libreria alle nostre spalle (alle spalle abbiamo sempre una libreria, mai un cesto dei panni sporchi), tenere di faccia il prosciutto da noi appena pubblicato, acciocché se ne veda bene la copertina e le folle accorrano a comprarselo assieme a una batteria di pentole.
Tuttavia ieri si è superato (il commercio del sé è una disciplina assai competitiva, in cui ogni giorno vengono stabiliti nuovi primati). Il Corriere si accinge a pubblicare alcuni libri fondamentali per capire la geopolitica, visto che improvvisamente gli italiani sono interessati a una cosa che non si sono mai filati in vita loro, cioè gli scenari internazionali. La collana è a cura di Federico Rampini e viene presentata da un articolo di Federico Rampini. Di fianco all’articolo di Federico Rampini che presenta la collana curata da Federico Rampini c’è il piano dell’opera, ovvero la lista dei titoli con data d’uscita. Ogni tanto c’è qualche nome minore tipo Henry Kissinger o Ian Bremmer, ma la collana è dominata dall’unico vero esperto di politica internazionale mai pubblicato in Italia.
È di Federico Rampini il primo libro che esce, oggi. Suo è quello che uscirà il 25 marzo, quello dell’8 aprile e quello del 22, e il 6 e il 20 di maggio i lettori del Corriere potranno comprare preziose opere del Rampini, e ancora il 3 giugno e poi il 17, e persino il primo luglio, volumi di Federico Rampini aiuteranno il lettore del Corriere a decodificare gli scenari internazionali. Fanno nove opere di Rampini su venti: si è fatto da parte e ha lasciato ad altri più della metà dei titoli, io mica lo so se avrei avuto altrettanta continenza.
Mi vengono in mente i film di Soderbergh in cui Soderbergh, oltre che regista e sceneggiatore, è pure direttore della fotografia e montatore. È difficile, per noialtri che abbiamo la malattia dell’autostima ipertrofica, credere che chiunque altro possa fare un qualsivoglia lavoro meglio di noi. Però Soderbergh il montaggio e la fotografia li firma con due pseudonimi (uno dei quali femminile: sarà appropriazione culturale?), per risparmiare allo spettatore di vedere troppissime volte il suo nome nei titoli di testa. Rampini no. Forse. Siamo sicuri che Henry Kissinger non sia un suo pseudonimo?