Domani, 11 marzo 2022
Stroncatura del libro del generale Figliuolo
Anche chi non l’ha letto sa già molto, quasi tutto, del libro autobiografico del generale Francesco Paolo Figliuolo. Galeotte sono state le anticipazioni distribuite a piene mani dall’editore Rizzoli, anche prima di finire in libreria. Quello che anche chi lo ha letto non sa, e che continua a essere misterioso anche dopo attenta esegesi del testo, è la ragione per cui un uomo che ha raggiunto le fatidiche quattro stelle, vetta assoluta, oltre l’Everest per chi fa il mestiere delle armi, si sia lanciato in questa nuova scommessa con la sorte.
E cioè perché l’uomo che dal primo marzo 2021 e fino alla fine del corrente mese è «Commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica Covid-19», l’uomo che è in predicato di uscire dall’incarico fra applausi generalissimi grazie al dogma dell’efficienza che ha circondato la sua fonte di nomina, il presidente del Consiglio Mario Draghi, insomma perché quest’uomo abbia deciso di esporsi ancora e di nuovo al rischio dei rischi, quello del ridicolo.
Figliuolo non è solo coraggioso, come “confessa” di sé con ingenuità disarmante, l’uomo è temerario: perché oltre a esprimere giudizi a pioggia sulla categoria dei virologi in tv, metodo sempre poco apprezzabile (e infatti poco apprezzato dai destinatari); oltre a rispolverare il mito degli italiani brava gente, dopo i libri dello storico Angelo Del Boca sarebbe meglio girare alla larga dal concetto, come misura prudenziale; oltre a offrire un catalogo di encomi alla sua persona riferiti da amici parenti colleghi e anonimi politici (anonimi per discrezione, viene sottolineato); oltre tutto questo, dunque, si concede gioiosamente alla memoria di sé bambino, ragazzino e giovane recluta.
Come quando racconta della «strage di orecchioni» nell’ospedale militare dell’Accademia, gestito dalle suore, del sospensorio per genitali messo sulle orecchie da un suo collega; di «qualche giornalino sconcio (che) lo leggevamo tutti, dai»; di quella non propensione a innamorarsi «subito e ripetutamente», non proprio da spiriti tufacei; di quando alle elementari, se non gratificato da un dieci da parte dei maestri, «me li mettevo da solo». Insomma ci si compra l’autobiografia di un generale e, almeno nelle prime pagine, ci si trova in mano il libro delle barzellette di Francesco Totti.
Del resto deve essere nato così, questo libro-intervista con Beppe Severgnini, scrittore così affascinato dal suo interlocutore da vantare a più riprese di essere «della stessa generazione», come per appuntarsi al petto qualche scintilla della luce del coautore (della propensione a esibire nastrini e medagliere qui non si parla, la versione di Crozza chiude il discorso). Un libro nato per sorridere, lo diciamo con indulgenza e affetto filiale per le nostre forze armate, e infatti il titolo, Un italiano, è una diretta citazione di una canzone di Toto Cutugno, e il puntino sulla “i” è disegnato dal cappello degli alpini. Ma stampato in oro.
Qui però non si discute la favola bella da giovane studente «spaesato» a uno «che ce l’ha fatta», né la scoperta della «schiumarola» nel magazzino di batteria dell’alpino. È la memoria di questi due anni di pandemia – i mesi sono passati veloci, sono stati certi giorni e certe ore a non passare mai – a non far tornare qualche conto.
Il libro descrive la sua discesa in campo dopo il secondo governo Conte e soprattutto dopo la gestione del suo predecessore Domenico Arcuri con espressioni come «il mio è stato un approccio più dinamico», «l’ordinanza del 9 aprile 2021 è stata la svolta», poi a luglio un altro «mezzo miracolo».
È andata così? La cronaca, depurata dall’enfasi dell’epopea della salvezza, racconta di un Piano vaccinale che lasciava sostanzialmente invariato il sistema ma definiva nuovi target di vaccinazioni giornaliere perché si riteneva necessario realizzare «un cambio di passo». I nuovi target, che pure sono rivisti diverse volte, non sono mai stati raggiunti. Per esempio: 300mila vaccinazioni al giorno da raggiungere tra il 17 e il 23 marzo 2021. Le vaccinazioni medie giornaliere effettivamente raggiunte sono state 174mila, poco più della metà.
Poi c’è stato l’annuncio delle 500mila vaccinazioni al giorno da raggiungere tra il 14 e il 20 aprile. Quelle effettive sono state 327mila. L’obiettivo poi non è stato raggiunto neanche nel mese di maggio. Quindi è arrivata l’ora, anche qui in realtà si tratta di un annuncio, di un milione di vaccinazioni al giorno, la famosa «spallata»: mai data, mai raggiunte. Il massimo di vaccinazioni giornaliere è stato intorno a 600mila.
Quanto all’immunità di gregge, il generale ha promesso l’80 per cento della popolazione vaccinata entro settembre e poi il 100 per cento entro il 5 ottobre. Al 20 dicembre era stato vaccinato il 77 per cento della popolazione. Nel frattempo l’obiettivo era stato portato all’80 per cento, sì, ma della popolazione vaccinabile (all’epoca era quella dai 12 anni in su) che innanzitutto non avrebbe garantito l’immunità di gregge e comunque non era quanto previsto dal piano. Questo ha consentito di togliere dal denominatore 3,2 milioni di persone e così, invece, di raggiungere effettivamente il target. Ma del resto che cos’è per il generale «un piano»? «Il piano è qualcosa di concettuale, ma a noi militari hanno insegnato che le attività complesse (a) si concepiscono (b) si organizzano (c) si conducono». Il problema, scrive nel libro, «dunque, a mio avviso, non è nei piani». Ad aver saputo prima era meglio non rompersi la testa a farli, quei piani, dunque.
C’è un altro aspetto che dal libro emerge poco, ed è stato quello delle categorie vaccinali e delle modalità di vaccinazione. Per imprimere il famoso «cambio di passo» di cui quasi tutti i giornali hanno parlato con trasporto, il generale ha fatto dichiarazioni un tantino contraddittorie.
Il 15 marzo 2021, sembra un secolo e invece era solo un anno fa, dichiarava alla trasmissione Che tempo che fa di Fabio Fazio, su Rai 3, che bisognava «accelerare»: «Basta con questa inutile burocrazia, vacciniamo tutti quelli che passano, basta una stretta di mano». Di fatto stava dicendo di mandare in soffitta le priorità condivise con il parlamento che avevano lo scopo di tutelare i soggetti deboli e i protocolli di sicurezza a tutela di tutti. Dopo poco più di un mese il generale cambiava verso. «Furbetti del vaccino, gravissimo a livello morale», titolavano i giornali riferendo le sue parole. E ritornava a dire che bisognava rispettare le priorità del piano vaccinale.
Questi sono solo esempi della versione di Figliuolo. Che, a onor del vero, fa anche molti complimenti al ministro della Sanità Roberto Speranza – di Potenza come lui, e come la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, sottolinea con orgoglio – ed è prudentemente cautissimo nelle critiche alle scelte del governo precedente e in particolare a quelle di Arcuri che, ammette, «si sono trovati inondati dalla pandemia, il Covid nessuno lo conosceva. Dover acquistare in fretta e furia i dispositivi di protezione individuale è stato complesso – in Italia la produzione era marginale, non avevamo né le materie prime né i macchinari. Si sono riempiti i magazzini, ma probabilmente la struttura precedente non aveva la capacità, tipica dei militari, di percorre l’ultimo miglio».
Ed è questo che ha fatto il nostro, in effetti: l’ultimo miglio. Le medaglie che si è potuto appuntare sul petto derivano da coperture di soldi già stabilite in precedenza, i protocolli con chi poteva e poi doveva effettuare i tamponi e i vaccini, il reperimento delle mascherine (all’inizio del 2021 il problema era risolto), dei reagenti per processare i tamponi, la ricerca degli hub, il sistema informatico di monitoraggio delle consegne: tutte le questioni esplose nella prima ondata della pandemia. I protocolli, per esempio, sono ovviamente tutti voluti e firmati dal ministero della Salute: con i biologi, con i medici della medicina generale, con i giovani specializzandi, con i farmacisti.
Capitolo a parte merita il rapporto con le regioni: è stato micidiale quello fra il governo e il commissario precedente e i presidenti. Anche dovuto – ma non solo – al fatto che la stragrande maggioranza delle regioni era governata dalla parte politica opposta all’esecutivo giallorosso. E invece il governo Draghi ha imbarcato nella sua maggioranza la Lega e Forza Italia e si è guadagnato, se non la pace sociale, poco di meno.
Arcuri invece, carattere meno accondiscendente del militare, li sbugiardava apertamente. Fino a che dopo il primo anno di pandemia e con l’arrivo dei vaccini in monumentali quantità, le regioni non si sono messe a lavorare pancia a terra: ed è il momento in cui è arrivato Figliuolo. Direbbero i latini post hoc, ergo propter hoc («dopo questo e quindi a causa di questo», ndr). Ma anche per i latini trattasi di sofisma, non necessariamente di una regola causa-effetto.
Secondo il commissario è stato invece il suo tocco magico a risolvere tutto: «I presidenti? Li ho convinti. Certo, qualcuno aveva altri obiettivi, voleva far vedere di essere il più bravo o il più bello. Ci sta, nella dinamica umana. Io mi sono limitato a tracciare i confini. Invalicabili. Sul resto si poteva trattare», scrive mentre riferisce del rapporto con «Stefano e Max» nel senso di Bonaccini (presidente dell’Emilia-Romagna) e Fedriga (Friuli-Venezia Giulia).
E poi c’è la questione della quarta stella bordata di rosso, quella dei capi di stato maggiore e dei generali di corpo d’armata con incarichi speciali. La nomina del generale Figliuolo a Commissario straordinario sembra metterlo fuori dall’ambitissima meta – legittima ambizione, sia chiaro – e infatti a novembre è l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone a subentrare nella carica di capo di stato maggiore della Difesa fin lì ricoperta dal generale Enzo Vecciarelli.
Per Figliuolo è una mezza delusione, anche in prospettiva. Però Figliuolo sta scrivendo la rifondazione della storia nazionale per il nuovo governo. E non è bello che il firmamento che porta sulle spalle, insieme allo zaino da alpino, resti con un buco nero. Per questo a dicembre il Consiglio dei ministri, su proposta del ministro della Difesa Lorenzo Guerini, nomina Figliuolo comandante del Covi, assonante ma tutt’altra cosa: è il Comando operativo di vertice interforze. Altro incarico a cui in realtà aspirava il nostro, anche perché di recente elevato di rango, con l’attribuzione appunto della fatidica e luminosissima quarta stella.
Si tratta però di un incarico molto operativo, alle dirette dipendenze del capo di stato maggiore della Difesa. Si occupa di pianificazione, del coordinamento e della direzione delle operazioni militari in Italia e all’estero delle forze armate italiane, e delle esercitazioni interforze e multinazionali con le attività collegate, è nato nel 1997 ed è stato recentemente ampliato nelle competenze «per agevolare il comando nelle operazioni nei cinque domini: terra, mare, cielo, spazio ed elettronica», ovvero il cyberspazio.
Fino a settembre lo ha ricoperto il generale Luciano Portolano, che poi è diventato segretario generale della Difesa e direttore nazionale degli armamenti. «Un impegno serissimo e molto gravoso», quello che è toccato a Figliuolo, spiegano negli ambienti militari, «un sovraccarico di lavoro», viene aggiunto con apprensione. Frasi che dal gergo si traducono così: tanta roba, troppa. Si tratta infatti di controllare ogni giorno le operazioni collegate a tutte le missioni militari, anche satellitari. Un mondo intero, e pericolosissimo, da tenere sotto occhiuta attenzione.
E come può farlo chi si occupa quotidianamente di un altro mondo terribile e intricato, quello della logistica dell’emergenza Covid? Ma lo stellare e stellato Figliuolo ce la farà, al ministero della Difesa nessuno ha dubbi, peraltro ha la più completa fiducia del ministro Lorenzo Guerini.
Anche se in questi giorni di guerra proprio questo secondo incarico comporta la responsabilità di un’altra ulteriore mission impossible: la missione segreta – che in tempi di tracciamenti tanto segreta non resta in realtà – della logistica del materiale bellico da inviare in Ucraina. Vexata quaestio, contestata dai pacifisti ma valutata con perplessità anche da qualche alto grado militare. Ma non per ragioni logistiche: trattasi di radunare armi dalle caserme e dalle stanze segrete militari di tutto il paese, missili terra-aria, mitragliatrici, dispositivi anti mine, giubbotti antiproiettile, proiettili e munizioni, assemblarle e trasportarle a meta, cioè nel paese in guerra. Provando a non essere intercettati dal nemico russo e dai suoi complici.
Del resto la logistica è la passione del generale, dai tempi in cui da alpino capiva che «quando si va in montagna nello zaino bisogna portare quello che serve» e invece a volte scopriva «che uno nella gavetta aveva ancora la peperonata del campo precedente». E salendo su su per li rami, fino al comando alleato in Bosnia, dell’Afghanistan, del Kosovo, su fino a quello del Covid, tutti incarichi portati a termine con encomio e promozione.
Perché, scrive, «la logistica è romantica. Quando gli elementi vanno a posto e i meccanismi si incastrano esattamente, mi sembra di ascoltare la musica delle cose». La guerra è una storia maledettamente seria per fare battute sulla musica delle armi che sta maneggiando.
Figliuolo gode dell’immunità da critiche e dunque ce la farà, anche se nel libro giura di apprezzare Cincinnato, «ho dato quello che dovevo dare, adesso mi faccio da parte». La vita rurale può attendere. Ce la farà perché quando parla dei successi della campagna vaccinale scrive che «sono soddisfazioni non personali, ma nazionali», «dietro la mia uniforme c’è il prestigio dell’Italia». Ce la deve fare, dunque: per amor di patria. E anche perché, dicono quelle malelingue dei bene informati, sarebbe in arrivo un decreto che dà alla quarta stella un valore aggiuntivo al trattamento economico già conquistato: e potrebbe valere 500mila euro l’anno, «interamente pensionabili». E anche reversibili.