Avvenire, 11 marzo 2022
Intervista a Beppe Signori
Nella mail personale, Beppe ha messo il 188, come i gol segnati in Serie A, tra Foggia, «il tempo delle mele e della scoperta», Lazio «la consacrazione» e Bologna «la resurrezione». E mentre parliamo, rilancia il pallone al piccolo Ricky, il quinto figlio, l’ultimo nato di casa Signori: «Il mio erede in campo, ha tre anni, ma si vede già che è portato per il calcio». Se la sua storia fosse un film, il caro Francesco Nuti l’avrebbe intitolato “Beppe (invece di Willy) Signori e vengo da lontano”. Un docufilm sulla sua vicenda umana, sportiva e giudiziaria, è pronto e lo vedremo presto (su Sky, regia di Pier Paolo Paganelli) e si intitola come il libro autobiografico che ha appena dato alle stampe: Fuorigioco. Perde solo chi si arrende (Sperling & Kupfer. Pagine 174. Euro 17,90) In campo il reuccio italico del gol anni ’90 («per tre volte ho vinto la classifica cannonieri»), classe 1968 («sono nato l’anno che è morto padre Pio»), il rigorista “da fermo” più imitato d’Europa («senza rincorsa, per studi fatti durante le partite di freccette»), non si è mai arreso.
E una volta appesi gli scarpini al chiodo (ultima stagione nel 2005-2006 con gli ungheresi del Sopron) aveva preso il patentino a Coverciano ed era pronto per allenare, quando lo tsunami di “Scommessopoli” lo ha travolto. Il 1º giugno 2011 il suo nome spicca tra gli arrestati per le combine di una organizzazione internazionale del match fixing. La giustizia sportiva lo condanna subito a 5 anni di stop. Per la pubblica ottusità è colpevole senza appello. «Sbattere il “mostro Signori” in prima pagina alla Procura di Cremona garantiva un certo risalto mediatico», spiega dieci anni dopo il Beppe scagionato, unico tra i 134 indagati di quell’inchiesta denominata “Last Bet” a non essere mai stato interrogato. E in nessuna delle 80mila intercettazioni telefoniche dei “furbetti del palloncino” il suo nome e cognome viene menzionato.
Una vicenda all’Alberto Sordi in Detenuto in attesa di giudizio...
Già, e ci sono voluti dieci anni per l’assoluzione piena ai processi di Modena e Piacenza e per arrivare a quella sentenza che ha sancito: «Il fatto non sussiste». Dentro quella formula ci sono dieci anni di sofferenze indicibili, ma anche la mia rinascita. E devo ringraziare il mio avvocato, Patrizia Brandi, che mi consigliò di non ricorrere alla prescrizione, in modo da arrivare a una giustizia piena, senza ombra di dubbio.
Signori innocente anche per la giustizia sportiva: il 1° giugno dell’anno scorso il presidente della Figc Gabriele Gravina l’ha finalmente “graziato”.
Il 1° giugno è una data che ricorre spesso nel mio cammino... Era il 1° giugno del 1992, il giorno azzurro, quello della mia prima convocazione in Nazionale con Arrigo Sacchi ct. Poi c’è stato il 1° giugno nero, con l’arresto, e finalmente quello rosa del riconoscimento da parte del mio mondo, il calcio, che forse Signori ha commesso un solo errore in vita sua: essere troppo buono.
Ha pagato per la generosità e il pizzico d’ingenuità dell’eterno goldenboy del pallone?
Per quei dieci anni di buio assoluto devo solo chiedere scusa ai miei figli e a mia moglie Tina. Da cristiano, il perdono da parte mia c’è sempre, però i nomi di chi mi ha riversato addosso tanta cattiveria gratuita non non li dimentico, li ho segnati tutti... Ora sto più attento, ma resto sempre lo stesso: il “capitano”, e non quello di facciata che si limita a mettere la fascia al braccio, ma quello vero che ha l’istinto di protezione per la sua squadra e che difende lo spogliatoio come se fosse la sua famiglia.
Allora sfogliamo l’album di famiglia dall’inizio. Il piccolo Signori dove ha tirato i primi calci ad un pallone?
All’oratorio di Villa di Serio, il mio paese nella bergamasca. Giocavamo per ore sotto l’occhio vigile di don Achille che gestiva gli orari dell’unico campetto (a 7) che serviva per tutti: fischiava e bacchettava i grandi che non lasciavano giocare noi più piccoli.
Il piccolo Beppe a 9 anni è già un talento delle giovanili dell’Inter.
Sì ed ero al settimo cielo: partita al sabato e alla domenica facevo il raccattapalle a San Siro. Un sogno. Poi nel passaggio da giovanissimi agli allievi venni scartato. Al “ballottaggio” con Fausto Pizzi scelsero lui. Fine delle illusioni, ma non mollo...
A 16 anni ricomincia dal Leffe.
Allenamenti dopo il turno alla fabbrica tessile del presidente Maurizio Radici che con la sua Sit-In era anche lo sponsor dell’Atalanta. Avevo fatto la scuola da riparatore radio-tv, così mi misero nel reparto ad aggiustare i macchinari. Debutto in C2, ma per capirci, da operaio prendevo 800mila lire al mese, da calciatore 600mila.
Il salto nel calcio che conta avviene nel Foggia di Zdenek Zeman.
Il mio maestro. Ho sempre detto che prima di essere allenato da Zeman giocavo a pallone, con lui ho imparato a fare calcio. Chi è veramente il boemo? Un uomo molto spiritoso, ma questo aspetto lo conosce solo chi l’ha vissuto da vicino. E poi Zeman è una persona sensibile. A modo suo in questi dieci anni mi è stato sempre vicino. Due settimane fa sono andato a trovarlo a Foggia per le riprese del mio docufilm, lui ha un ruolo decisivo.
Con il Foggia di Zemalandia e il trio meraviglia, Rambaudi-Baiano-Signori, tornò a San Siro da protagonista contro l’Inter di Orrico.
Nel mio libro lo racconto. La sera prima di Inter-Foggia, con noi nepromossi, io e Rambaudi ci affacciamo dalla finestra dell’Hotel Brun e vediamo San Siro che ci sembrava un’astronave e dico: “Rambo” ma lo sai che domani ti marca Brehme, oh, è un campione del mondo. Lui ci pensa su un attimo e fa: «Oh Beppe, guarda che a te non va meglio, ti marca Bergomi, un campione del mondo pure lui». Ridiamo come matti e il giorno dopo facciamo un partitone: finisce 1-1 con gol di Ciccio (Baiano) per noi e Ciocci per loro.
Era il “Foggia dei miracoli” e del “bomber miracolato”.
Un giorno viaggiavo sulla Foggia-Apricena, quando all’improvviso sbandai e la macchina cominciò a volare... Buttai giù sette paletti di un vigneto e sull’ultimo per fortuna si arrestò quella che poteva essere la mia ultima corsa. Mi ha salvato la canottiera che mia madre, anni prima, aveva fatto benedire da padre Pio a San Giovanni Rotondo. Quella canottiera l’ho indossata per tutto il resto della mia carriera, ora l’ho incorniciata insieme a tutte le maglie delle mie squadre, ma quella è la mia maglia miracolosa.
Con la sua canottiera arrivò anche il grande salto alla Lazio al fianco del panzer “Kalle” Riedle e del folle “Gazza”, Paul Gaiscogne.
Riedle grande attaccante, aveva una elevazione pazzesca. “Gazza” un mito. Su di lui circolano ancora tante leggende metropolitane, ma io vi assicuro che era un professionista, il primo ad arrivare all’allenamento e l’ultimo ad andarsene. Mai visto Paul ubriaco. Gli piaceva fare gli scherzi, come quella volta che sotto la doccia gli dissero che Zoff voleva vederlo subito e si presentò nudo davanti al mister... – sorride divertito – . Gascoigne possiede la dote dei grandi, l’umiltà.
In attacco alla Lazio fece coppia anche con il croato Alen Boksic, detto “Alien”.
Alen non era forte, di più. Alla Lazio purtroppo non ha ripetuto le cose marziane che aveva fatto vedere a Marsiglia. Boksic era comunque velocissimo, tecnica sopraffina, fisicità devastante: se il terzino si attaccava alla sua maglia se lo trascinava fin dentro la porta... Ma il suo tallone d’Achille era lì, sottoporta, altrimenti sarebbe ricordato come il più forte attaccante di tutti i tempi. Boksic in area non era cattivo quanto me e io quella cattiveria agonistica l’avevo appresa con Zeman, a forza di allenamenti asfissianti e di rimproveri continui.
Due ingredienti per realizzare gol a grappoli, specie con il “canalone”.
Il copyright del «canalone» è di Roberto Cravero che un giorno al mio ennesimo gol in fotocopia (tiro in diagonale dal limite) disse: «Inutile, c’è come un canale che scorre e la palla finisce sempre lì, sui piedi di Beppe» – sorride – Bei ricordi.
Che ricordo ha del patron della Lazio più forte di sempre, Sergio Cragnotti?
Un gran signore. Con Cragnotti ho avuto un rapporto eccezionale, mi stimava talmente tanto che ad ogni rinnovo di contratto mi offriva sempre più di quello che avevo chiesto. L’estate del ’95 rinunciò a vendermi al Parma (per 25 miliardi), era già fatta, ma glie lo “impedirono” i 5mila tifosi laziali scesi in piazza Santi Apostoli per urlargli: «Signori rimane qui!». Amore puro e ricambiato. Poi dopo arrivò Eriksson... mi umiliò e me ne sono dovuto andare dalla Lazio. Ho sofferto tanto anche allora.
Flop alla Samp e poi la rinascita nel Bologna con Carletto Mazzone.
Mi accolese come un padre. Il primo discorso di Mazzone alla squadra fu: «Qua dentro parlo solo con Beppe, “er capitano”, e se qualcuno non lo conosce vada a studiasselo sull’almanacco». Se domani allenassi ci metterei l’inventiva silenziosa di Zeman e la capacità urlata di motivare di Mazzone che ci ripeteva: «Qui siamo all’università, io non ve posso insegnà a giocà, quindi da gente che sa, fate le cose più semplici possibili. Me raccomanno!» – ride di gusto – . Carletto, un maestro di campo e di vita.
Nella stagione 2000-2001 a Bologna va ancora in doppia cifra, 16 gol, ma quella stagione è segnata da un terribile lutto: la morte di Niccolò Galli.
Aveva esordito in Serie A contro la Roma all’Olimpico, a 17 anni. Aveva tutto per diventare un campione, come il padre, Giovanni Galli. Non dimenticherò mai la dignità con cui Giovanni e la moglie Anna affrontarono il dolore di vedere per l’ultima volta il loro figlio in ospedale... Era il 9 febbraio, mio figlio sarebbe nato il 28 marzo: in suo onore l’ho chiamato Niccolò... Il mio Niccolò gioca? No, a calcio è un disastro, ma in compenso studia Matematica all’università e rimedia anche a tutta la scuola saltata dal padre.
C’è qualcos’altro a cui vorrebbe tanto rimediare?
Sì, ho un solo rimpianto: non aver giocato la finale Mondiale di Pasadena, nel ’94. Sono stato un cretino, dissi «no» a Sacchi. Non mi andava di fare ancora lo sgobbone tra centrocampo e difesa. Fu un atto di scarsa umiltà, ero anche il rigorista nella Lazio, magari ai rigori contro il Brasile avrei potuto... Se tornassi indietro chiederei a Sacchi di farmi giocare anche in porta, al posto di Pagliuca. Ma ormai, è strapassato.
Se guarda al futuro invece cosa vede?
Un campo di calcio davanti all’Oceano di Miami. È lì che ripartirà il mio sogno di allenare. Tra pochi giorni inauguro l’Accademia Beppe Signori. Non sarà la classica scuola calcio delle illusioni dei genitori e per centinaia di bambini, ma delle piccole classi, in cui cercherò di seguire gli allievi uno per uno e spiegargli la bellezza di questo sport che a me ha dato tanto bene, anche quando mi ha fatto stare molto male... Oggi so che la vita è come il calcio, è fatta di due tempi: il primo per me si è chiuso, ma il secondo tempo è appena cominciato.