il Giornale, 11 marzo 2022
Quelli che... la cancel culture non esiste
Appunti a margine di un libro a più mani appena uscito: Non si può più dire niente?, sottotitolo «14 punti di vista su politicamente corretto e cancel culture» (Utet). Primo: il titolo è un po’ ruffiano. In realtà sta insinuando che si può dire tutto, che il politicamente corretto è un equivoco e che la cancel culture non esiste, se non nella testa di certa destra. Poi lo leggi e a dispetto della prefazione bipartisan l’impressione è confermata da quasi tutti i saggi (lodevole eccezione, quello di Daniele Relli: «Il re woke. Il politically correct come tribalismo morale»). Per il resto Non si può più dire niente?, con diverse sfumature, regge la tesi che da noi chi parla di politicamente corretto e cancel culture usa espressioni importate dagli Stati Uniti senza averle comprese e contestualizzate. E poi, sintetizzando all’estremo: un po’ di autocensura è il giusto prezzo da pagare in cambio di un linguaggio più sensibile, rispettoso e inclusivo. Che è esattamente il contrario di quanto – da giornalista – mi aspetto dalla parola e dalla scrittura: e cioè la libertà assoluta di dire qualsiasi cosa fino a un millimetro prima del reato di diffamazione. Se sarò maleducato o offensivo verso qualcuno, sarà il mio lettore a girare pagina, non certo un giudice o il tribunale della Buona Coscienza Democratica a spiegarmi cosa posso dire e scrivere. Per il resto, nessuno pensa che il politicamente corretto sia una «dittatura». Semmai ultimamente è una farsa. Che è peggio. E la cancel culture per ora, in Italia, è solo un timore, non un terrore. Anche se giustificato. Ultimi esempi: il sindaco di Milano, Sala, che chiede a un artista una professione di fede altrimenti non sale sul palco e quello di Firenze, Nardella, che prima normalizza il finale della Carmen per essere più femminista e poi copre la copia del David con un drappo per essere più pacifista. E non diremo dell’uso di asterischi e schwa, il peggior crimine di cui può macchiarsi chi crede nella scrittura. La lingua non si modifica – tanto meno si stupra – per decreto o a colpi di editoriali sulla stampa democratica. Per il resto, non è vero che «non si può più dire niente». Ma è vero che siamo costretti a dire sempre qualcosa in meno. E ciò basta e avanza per essere preoccupati.