Specchio, 6 marzo 2022
Francesca Michielin si racconta
«Da parte mia, preferisco che il mio cuore si spezzi. È così bello, all’alba, caleidoscopico nella fessura». In esergo al suo primo romanzo, Il cuore è un organo (Mondadori, in libreria dal 15 marzo), Francesca Michielin ha scelto questa frase di David Herbert Lawrence. In copertina c’è il disegno di una ragazza che ha un buco sul petto e tiene in mano il suo cuore. Senza sangue. Il libro non parla di un espianto o di un gelo, ma di un grande dolore, una grande passione e una grande fede, tutte cose che il cuore o lo tramortiscono, depotenziandolo per sempre, o lo risvegliano. Qui lo risvegliano. Michielin ha pubblicato il suo primo disco nel 2012, a 17 anni: aveva vinto X Factor (quinta edizione) da poco, facendo esclamare a Simona Ventura «l’Italia non è un paese per vecchi!» e scrivere ai giornali che era un’enfant prodige. Il tempo degli adolescenti dei record era dentro l’angolo e i ragazzini venuti fuori dai talent show erano stati quasi tutti meteore. Lei aveva qualcosa di diverso, di più, era già tutto quello che avrebbe consolidato: una rockpopstar, metà Pausini e metà regina di Fantàsia, concreta e lunare, ghiaccio bollente. Dai musicisti molto giovani, dieci anni fa, ci si aspettava poco più che musica da cameretta: niente di più lontano da lei. In dieci anni, ha fatto quattro dischi, sei tour, un podcast, una trasmissione per Sky Nature, Effetto Serra. Guida pratica per terrestri consapevoli (in onda dal sei marzo), colonne sonore e un sacco di duetti bizzarri (ha scritto e cantato pezzi con Fedez, FabriFibra e Vasco Brondi; a Sanremo di quest’anno ha cantato Baby One More Time di Britney Spears con Emma Marrone). Molto di quello che, sul cuore (non sull’amore: sul cuore)ha scritto nelle sue canzoni, nel suo romanzo è messo in chiaro, esplicitato, indagato meglio: che è ciò che ci rende carnali e astratti, che è la prova di come siamo attaccati all’arbitrio di un battito, che dobbiamo seguirlo anche quando ci sembra matto, perché è più corporeo che ideale. E che i gradi di separazione che s’annullano quando ci si ritrova affini, e si persegue un medesimo obiettivo, non esistono; che la libertà solo un altro ce la può dare.
Quand’è che a un musicista non bastano più le canzoni?
«Io ho da sempre un grande problema di incontinenza. Scrivo tantissimo: racconti, poesie, blog, diari. Con i testi della canzoni faccio fatica: non ho la stessa libertà, perché le parole sono legnose, e devono obbedire a regole precise: fare una frase che abbia una ritmica potente con parole tronche è molto complesso, a volte costrittivo. Col il romanzo è successo il contrario: ho detto quello che volevo, come lo volevo. Nelle canzoni, a volte, la musica fa quello che le parole non riescono a fare, e allora uno pensa che le parole abbiano un limite connaturato. Nei romanzi, però, le parole si soccorrono a vicenda, e allora quel limite s’abbassa, si distende, e scompare. E infatti io mi sono lasciata andare».
Lasciarsi andare significa essere se stessi?
«No. Essere se stessi è il pop ».
Ma non è detto che essere se stessi aiuti ad arriva a tutti.
«Infatti il pop non arriva a tutti: è lo spazio in cui tutti possono essere chi sono al massimo. Ho avuto la fortuna e la sfortuna di fare il conservatorio, e ho studiato sia musica classica che jazz: la classica risponde a un linguaggio specifico, mentre il pop ne inventa uno tutto suo, di volta in volta, artista per artista, ciascuno crea regole obbedire alle quali migliore la sua espressione, la rende più vicina possibile a quello che vuole dire. ed è una grossa responsabilità: l’esito è incerto sempre, può essere ottimo o tremendo, e non c’è modo di collaudare un modo di procedere che dia garanzia di riuscita per sempre».
Un po’ vago. Semplifichiamo: se le chiedessi una definizione del pop, lei direbbe?
«Che è la pattumiera del sistema. Hegel chiamava così la natura, per dire che essa raccoglie tutto ciò che è contingente. Non voglio dire, con questo, che il pop si faccia a caso, ma che è uno spazio aperto, dove succedono cose imprevedibili».
Non crede che l’autenticità sia impossibile?
«Possibile o meno che sia, deve essere il nostro traguardo. Mi sono laureata da pochissimo: ho concluso la discussione della mia tesi dicendo che il compito più arduo dell’artista, nel 2022, è essere se stesso. Come si fa a capire di esserlo? Io credo che sia un fatto d’istinto: quando stiamo bene, a nostro agio, ce ne accorgiamo. Ecco, quel piccolo segnale è inequivocabile, per quanto, magari, transitorio. Dopotutto, è transitoria anche l’identità, ed è per questo che non dobbiamo pretendere coerenza, ma imparare a riconoscerci anche nella contraddizione».
Comunque lei ha scritto canzoni con versi perfetti. Ne dico uno a caso: quando mangio con te, ho paura che arrivi il caffè. In un romanzo non lo avrebbe scritto.
«Vede che i compromessi fanno fare cose buone? Comunque, non so se sia perfetto, e nemmeno voglio. La perfezione è la cosa più escludente che ci sia. Mi annoia».
Che cos’è, per lei, vestirsi?
«Un gioco».
Nel suo romanzo, la protagonista è sfiancata dai compromessi che fa per restare insieme a un uomo che non ama, ma dal quale non riesce a staccarsi.
«Eppure, io credo che si debba essere capaci di accettare i compromessi: sono la sola alternativa possibile alla polarizzazione estrema che caratterizza il nostro tempo, quindi, in fondo, sono il sostrato della complessità. Sono fortemente contraria alla radicalità, perché ostacola il cambiamento, l’evoluzione, e tutto ciò che è inatteso. Nella storia che ho raccontato ci sono due ragazze: la protagonista che deve risolvere alcune cose dentro di sé e l’amica di cui forse s’innamora, che invece ha un suo moto di ribellione al quale risponde appunto radicalizzandosi. Ho scelto due figure così diverse, e ho rappresentato il loro affetto, che è una conciliazione possibile di due estremi, la sfumatura, perché credo che ci sia bisogno di raccontare qualcosa che vedo sempre più assente dai film e dai libri: non è vero che è sempre o tutto o niente».
Però i ragazzi, oggi, una radicalità la chiedono e spesso la vivono.
«Non credo sia radicalità: è nettezza. E hanno ragione: su alcune cose si deve essere netti. La politica si è sbrindellata perché ha fatto un ricorso continuo alle grandi intese. In questi giorni sento parlare di ritorno al carbone, per via della crisi in Ucraina: mi sembra assurdo. Ci sono soluzioni molto più sostenibili, economiche e interessanti, sulle quali nessuno vuole investire, perché richiedono tempo, eppure mi sembra che siamo in una emergenza cronica praticamente da sempre. Nella vita di tutti i giorni, però, le cose sono diverse: essere adulti significa accettare le vie di mezzo, le soluzioni compromissorie, che poi non sono altro che l’accettazione della propria fragilità. Da bambini tutto è ideale e la vita deve corrispondere a quell’ideale. Da adulti no, e dico che è un bene. E che l’arte è un compromesso».
Mi ha colpita, nel libro, Claudio, il ragazzo con il quale la protagonista, Verde, ha una relazione stancante che non riesce a troncare.
«Ho voluto raccontare un tipo di maschio che incontro spesso e che non ha nessuno dei connotati del tanto vituperato maschio alfa: quello che io chiamo il maschio beta. Inetto, tronfio, incapace di agire, pressapochista. Non voglio generalizzare, ma la mia generazione ha a che fare soprattutto con questo tipo di ragazzi: gli alpha, francamente, mi sembrano ormai macchiette, idealtipi. In contrapposizione al compagno prestante e risoluto, qualche anno fa, il beta ci sembrava più desiderabile, persino affascinante. E poi ci siamo ritrovate a fare al posto loro tutto quanto, soprattutto le scelte. Un incubo».
Al maschio beta del romanzo, però, la sua protagonista non vuole rinunciare perché le garantisce di sentirsi parte di qualcosa.
«Sì, di un circoletto di intellettuali radical chic, i peggiori di tutti, quelli che stanno nella loro bolla e si compiacciono di darsi sempre ragione».
Lei ha avuto dei maestri?
«Moltissimi. E poi ho scelto delle guide. Italo Calvino, che incarna la figura dell’intellettuale come vorrei che fosse: coltissimo e sempre a servizio della comunicazione. Ho capito il valore del suo lavoro, più ancora di quando l’ho studiato a scuola, durante un laboratorio al conservatorio, quando mi dissero di applicare alle mie composizioni Lezioni Americane e io imparai l’importanza della leggerezza e della velocità».
Non è mai stanca?
«A me piace la fatica: mi dà la misura del lavoro ben fatto. È lo stress che non tollero».
La fatica più grande che ha fatto?
«Conciliare studio e lavoro. I miei professori hanno sempre sminuito i miei impegni, dicendo che mi andavo a divertire. Insopportabile. Ma è poca roba. Io sono fortunata. Ho sempre fatto le cose che mi piacevano: quando ancora non guadagnavo niente, i miei genitori, che sono due persone normalissime, mi dicevano: fai soltanto quello che vuoi, ti aiutiamo noi. Era la strada giusta, mi ha permesso di selezionare, di non perdere energie in modo avvilente. Penso a chi, in questi mesi, si dimette perché con la pandemia ha capito che si sottoponeva a ritmi estenuanti e aveva perso la distinzione tra casa e ufficio: mi sembra una ribellione doverosa. Solo che è un lusso per privilegiati: la maggior parte delle persone non può permettersi di lasciare niente. Da anni collaboro con una ciclo officina, nel foggiano, che fornisce assistenza ai braccianti: faccio corsi di italiano e informativa sanitaria. E lì vedo le conseguenze estreme del modo in cui abbiamo strutturato il mondo del lavoro: un gigantesco impianto di sfruttamento».
È vero che, senza gli uomini, la terra sarebbe un posto migliore?
«Che Guevara diceva: io credo nell’uomo. E anch’io».
Di cosa non può fare a meno?
«Della pizza con le patatine e la maionese. Se non ne mangio almeno una a settimana, divento una persona aggressiva».