Avvenire, 10 marzo 2022
Cattolici contro comunisti sul campo di calcio
Dal campanilismo locale al tifo per le grandi squadre il gioco del calcio ha contribuito al processo di unificazione nazionale negli anni successivi al Dopoguerra. Furono anni caratterizzati da forti contrapposizioni tra cattolici e comunisti italiani, fronti opposti che attraverso il pallone miravano a conquistare i giovani. In questo quadro il calcio si inserisce a pieno titolo nel terreno di scontro ideologico che, dagli anni successivi alla seconda guerra mondiale fino agli anni ’70, vide protagonisti la Chiesa e la Democrazia Cristiana da una parte e i partiti della sinistra dal-l’altra, Pci e Psiup in particolare, che attraverso il collateralismo sportivo dettero vita rispettivamente al Csi e all’ Uisp. Gli oratori e i campi di periferia riflettevano in piccolo gli anni della Guerra Fredda, ma nonostante tutto contribuirono anche a favorire un processo di identità nazionale da Trento a Palermo. Il pallone che rotolava su quei campi divenne simbolo della contrapposizione politica nelle regioni più tradizionalmente “bianche” come la Lombardia e il Veneto e in quelle più notoriamente “rosse” come l’Emilia-Romagna e la Toscana, come documenta attraverso una capillare consultazione degli archivi del Csi e dell’Uisp lo storico francese Fabien Archambault nel libro Il controllo del pallone. I cattolici, i comunisti e il calcio in Italia (1943-anni Settanta)( Le Monnier. Pagine 420. Euro 29 ,00). Il tifo per il calcio, a partire proprio da quegli anni divenne un carattere costitutivo dell’identità nazionale tanto da spingere lo storico inglese Paul Ginsborg ad affermare che fu «una delle cose che hanno fatto gli italiani».
Nello scontro tra il calcio dell’oratorio voluto dai Don Camillo e quello “popolare” dei Peppone, attraverso cui si giocarono anche tante campagne elettorali nazionali e locali, a spuntarla fu il calcio cattolico perché, secondo Fabien Archambault: «Il calcio contribuisce in maniera determinante alla costruzione di un’identità collettiva cattolica in Italia. È anche per questo che i cattolici hanno vinto e che il disimpegno progressivo dell’Azione cattolica dal campo calcistico tutto sommato non ha penalizzato
il calcio d’oratorio, il quale si fondava su un sistema generale di interpretazione e di organizzazione più permanente e strutturato, sia dal punto di vista materiale che culturale. I comunisti sono in effetti sopravanzati dall’efficacia e dal carattere sistematico dell’impresa clericale. L’associazione collaterale dei comunisti si è ripiegata sui loro bastioni militanti ed essi non hanno saputo rispondere alla concorrenza in termini di organizzazione, ma anche di ideologia. I dirigenti comunisti sono molto meno interessati al “calcio popolare” che ai campionati professionistici di serie A».
A gettare le basi per uno sport degli oratori fu padre Gedda poco prima che il fascismo spirasse l’ultimo respiro, fu lui il primo presidente del Csi, già nel 1944, in quanto presidente dell’Azione Cattolica. Lamentele consistenti arrivavano dai parroci che avvertivano l’allontanamento dei giovani non più attratti da una politica del tempo libero portata avanti dagli oratori, rispondente più agli anni del Ventennio che a quelli di un Dopoguerra. Era un’Italia che di lì a poco si sarebbe avviata verso un progressivo processo di industrializzazione e di consumismo.
Nei circoli del Csi c’era sempre il parroco o il vicario, in quelli provinciali chi prendeva le decisioni più importanti era l’assistente ecclesiastico, che aveva diritti assoluti ed esclusivi. Le squadre di calcio degli oratori che aderivano ai tornei del Csi, in quegli anni prendono nomi latini che simboleggiano le virtù giovanili: Vigor, Ardor, Fulgor, Victor...
Nonostante le indicazioni chiare di dar vita a una squadra per ogni oratorio, nel 1954 su 23.947 oratori solo 2.017 avevano il campo di calcio dei quali 1.327 sorgevano al Nord. Sul lato opposto il Pci dopo la batosta elettorale del 1948 sciolse un antiquato Fronte della Gioventù, presieduto dal giovane Enrico Berlinguer e dette vita alla Federazione italiana della gioventù comunista (Figc) e sul fronte sportivo all’Uisp. Da una casa del Popolo di Bologna, quella di Porta Vittoria, non mancarono le critiche per le poche lezioni di marxismo-leninismo che si tenevano nelle
sezioni della Figc a favore delle tante partite di calcio.
Il Pci nella foga di una contrapposizione sportiva a tutto campo dette vita anche all’Api, acronimo di Associazione pionieri d’Italia, organizzazione sportiva dei più piccoli, alla quale aderirono anche, la Cgil, la Lega delle Cooperative e l’ Anpi. Fu proprio il segretario generale della Cgil Giuseppe Di Vittorio ad avere l’idea di costituire una squadra di calcio che giocasse in serie A, espressione dei lavoratori di tutta Italia, sul modello delle varie Dinamo e Lokomotiv che animavano i campionati di calcio nell’Est europeo che ruotava intorno all’Urss, come racconta il presidente dell’Uisp Arrigo Morandi convocato d’urgenza nella sede sindacale di Corso Italia a Roma nel 1950: «Un giorno mi chiamò Di Vittorio perché voleva espormi una idea che gli era venuta, andai subito e quando fummo assieme mi disse: “Io credo che dovremmo costituire una società di calcio capace di rappresentare i lavoratori, il suo movimento sindacale, una società di alto livello che riesca a giocare in serie A. I lavoratori devono dimostrare di essere capaci di promuovere e gestire anche lo sport di alto livello. Cosa ne pensi?”». Naturalmente non se ne fece nulla. Numerosi dirigenti del Pci sono stati attratti dal calcio di vertice, juventini furono Palmiro Togliatti, Luciano Lama e Walter Weltroni, blando tifoso del Cagliari Enrico Berlinguer e della Roma Massimo D’ Alema. Coloro che costituivano l’asse portante dell’intellighenzia di sinistra hanno sempre avuto un atteggiamento sprezzante verso il calcio “popolare”, mentre il fronte cattolico ha saputo proporre un modello, il calcio di oratorio, che ancora oggi è autonomo e ha radici profonde.