La Stampa, 10 marzo 2022
La fuga degli orfani
All’incrocio di Bilohorodka le macchine sono ferme dalle prime ore del mattino. Aspettano che riapra uno dei ponti sul fiume Irpin che porta a Nord-Ovest di Kiev, nei territori sulla linea di contatto, dove combattono le forze ucraine e quelle russe che controllano i bordi settentrionali della città. Superata la zona di contatto si arriva a Irpin, Bucha, Gostomel, Vorzel, tutte ormai in mano russa. Le auto in attesa sono di civili che sperano nell’annunciato cessate il fuoco. Vogliono tentare di raggiungere le loro case, portare via qualcosa prima che tutto precipiti, prima che le aree residenziali diventino teatro di una guerra urbana, prima che ricomincino i bombardamenti, di nuovo, massicci come i primi giorni di guerra.
Guidano in direzione contraria a quella di chi fugge. I soldati ucraini presidiano l’imbocco del ponte. Non lasciano passare nessuno fino alle dieci del mattino. Dal lato opposto le notizie non sono buone, cannonate dal primo mattino. Troppo rischioso lasciar passare i civili.
Sono passate due ore, quando alle dieci i soldati di guardia al check-point ci lasciano andare. Siamo con Igor, un volontario delle Unità di Difesa Territoriale. È armato, accompagna suo fratello a Bilohorodka per preparare alcune valigie di vestiti, scarpe. Servono a sua moglie e ai due figli che sono a Kiev in attesa di partire per Leopoli e raggiungere da lì la Polonia. Bilohorodka è un quartiere di villette e giardini, giostre e scuole. A indicare l’attraversamento pedonale in prossimità degli asili ci sono due statue alte un metro da una parte all’altra della strada. Ma non ci sono più bambini, né a scuola, né sulle giostre. Le strade sono deserte. Il rumore di artiglieria arriva e parte dai campi ai lati della strada. Il fratello di Igor entra in casa, bloccata al momento della fuga, quattordici giorni fa. In cucina i piatti da lavare, in soggiorno i giochi dei bambini, sparsi a terra. I mobili di una delle camere dei bambini ancora negli scatoloni, da montare. Si erano trasferiti qui da due mesi, per allontanarsi dalla vita caotica di Kiev. Poi la guerra.
In pochi minuti il fratello di Igor riempie due zaini, una valigia, uno scatolone di giochi. Più di quello che realisticamente potrà lasciare alla sua famiglia. «Ma come si fa, l’hanno chiesto i bambini. Volevano proprio quei giochi, come glielo spiego?».
Non si fa, la guerra ai bambini non si spiega. La guerra, i bambini, la subiscono. Sta per salire in macchina di nuovo quando un’anziana, spalle ricurve e volto coperto da uno scialle di lana verde, gli viene incontro dalla fine della via con una scatola di cioccolato. «Portali ai bambini, non ci siamo salutati», si abbracciano, si scambiano gesti d’affetto familiari. Nessuno ha il coraggio di terminare il pensiero: «se dovessi non rivederli» è la formula finale della frase che lasciano entrambi appesa al saluto. Non c’è codardia in quel tacere, sembra piuttosto un’omissione propiziatoria: la guerra meno si dice, meno esiste.
Igor e suo fratello riprendono la strada verso Kiev con un drappo bianco attaccato al finestrino, come tutti, ad allungare la coda di chilometri e chilometri di veicoli. Fazzoletti, asciugamani, lenzuola bianche. Qualcuno ha una bandiera bianca sul tetto della macchina.
Il cessate il fuoco è fragile, la finestra di tempo troppo breve per portare tutti in salvo, i volti dietro i finestrini consumati dall’attesa e dalla pena. Eppure nessuno si lamenta, nessuno si scuote più al rumore dell’artiglieria, nessuno prova a chiedere di essere salvato prima degli altri. È una rettitudine dolente, un decoroso rispetto a muovere gli intrappolati di Kiev.
Sono le undici di mattina quando si fermano su strada i primi mezzi della Croce Rossa diretti a Vorzel. Yuri, il capo convoglio, cerca invano di coordinarsi con gli ospedali, gli ospizi, le comunità locali dall’altra parte. Non c’è più linea, difficile dire se siano danni dolosi alle linee telefoniche o se le linee siano state schermate dai dispositivi elettronici che alterano le frequenze radio e rendono di fatto impossibili le comunicazioni. Il convoglio sa che deve affrettarsi, ma sa anche che deve muoversi a tentoni. Perché la situazione sulla zona di contatto è fluida. Una strada libera e controllata dall’esercito ucraino, potrebbe dopo un’ora essere in mano russa. Impossibile passare per la superstrada che congiunge Kiev alle aree a Nord-Ovest, forse un ponte fatto saltare in aria, forse check-point russi. Impossibile verificare, così il convoglio prende le strade secondarie. Chiediamo di poter seguire i mezzi, accodandoci al convoglio, e accompagnarli nelle delicate operazioni di evacuazione. La Croce Rossa acconsente. Da quel momento prendiamo la strada inversa a chi fugge, lasciandoci sulla sinistra la scia di migliaia di bandiere bianche. Attraversiamo chilometri di foresta di conifere. A terra, sui percorsi sterrati, le tracce dei carri armati lasciano pensare che la foresta sia già piena di postazioni russe. È la strada che porta a Bucha, Vorzel, e nella città di Gostomel, dove i russi hanno ucciso il sindaco Yuri Illich Prylypko mentre distribuiva cibo alla popolazione affamata.
Sui check-point, sempre più fitti, sventola la bandiera ucraina ma i soldati sono sempre più nervosi, ai bordi delle strade poche donne e bambini tentano di raggiungere le auto in coda, camminano senza alzare mai lo sguardo da terra.
A pochi chilometri da Vorzel, in prossimità di una curva, il convoglio si ferma improvvisamente. Dal fossato sul bordo destro della strada due soldati che imbracciano fucili mitragliatori bloccano i mezzi puntando le armi al veicolo che era in testa al convoglio.
Sono russi.
Dopo la curva, due mezzi corazzati per il trasporto delle truppe, un carroarmato. Le V scritte sui fianchi. È il primo check-point russo lungo la linea del fronte. Yuri scende dall’auto a negoziare il passaggio del convoglio. I soldati russi, uniforme nera, fascia argentata sul braccio, chiedono a tutti documenti di identità, perquisiscono auto e bagagliai. Trattano mezz’ora prima di consentire il passaggio verso Vorzel.
Attraversiamo il primo check-point russo, poi il secondo a poche decine di metri di distanza, mentre dalle abitazioni le anziane si sporgono a chiedere aiuto, mandano avanti i bambini, «Portateci via». Non ci sono uomini in giro.
Il convoglio attraversa velocemente le frazioni, meno velocemente i check-point russi che seguiranno. L’arrivo a Vorzel è convulso. Le ambulanze e i van si fermano in prossimità di un incrocio, i volontari della Croce Rossa corrono in direzione di un orfanotrofio, dietro il muro una fila di decine di carrozzine e passeggini, le assistenti dell’orfanotrofio corrono in strada, devono essere più veloci che possono, lasciare i bambini, tornare indietro a prendere gli altri. Li trasferiscono sui sedili uno vicino all’altro. Piangono, piangono sempre più forte, le anziane che li seguiranno nell’evacuazione li cullano, piangendo anche loro, ma in silenzio. Gli infermieri sono gli ultimi ad arrivare dall’orfanotrofio. Due bambini sono malati, uno è tracheotomizzato. Li sistemano sulle barelle dell’ambulanza, chiudono il portellone.
La direttrice dell’orfanotrofio non parte. Resta lì, immobile, a guardare dal bordo della strada il convoglio che si muove. Portati via i bambini restano passeggini e culle abbandonati davanti ai palazzi colpiti dalle bombe.
Non c’è modo di trovare altri feriti, malati, se non usando il megafono. «Uscite se volete venire via, donne e bambini, malati, anziani, siamo qui per aiutarvi» grida Yuri. Da un palazzo esce una donna, correndo. C’è un rifugio qualche decina di metri più in là, ci sono feriti. Non escono da giorni. I volontari raggiungono correndo il retro di un sanatorio, dalla cantina trasformata in rifugio esce un uomo ferito alla testa, ne esce un altro scheletrico, con ferite alle braccia. E due anziane, che si sostengono l’un l’altra, pregando. Dal portone dell’edificio, prima che i mezzi ripartano si affaccia un bambino, pensa che siamo tutti stranieri, sussurra: «Old men, old men». Ci sono anziani. Ha dieci anni quel bambino, si chiama Ivan. Sarà l’ultimo a salire sul mezzo che torna verso Kiev.
Prima di uscire dalla città, Yuri, il capo convoglio, grida un’ultima volta dal megafono «stiamo evacuando le donne, i bambini, i malati, gli anziani, c’è poco tempo, chi vuole venire via esca in strada». Esce una donna, esile, ha in braccio un neonato. Accanto a lei una bambina di cinque anni. Sono i suoi figli, spiega. «Mio marito può venire?», «No, signora, gli uomini no». «Allora resto, dice». Sapendo, lei come noi, cosa significhi per gli uomini il divieto di andare via mentre le donne vengono evacuate. È la memoria degli assedi, quella della giustizia sommaria. —