la Repubblica, 10 marzo 2022
Intervista ad Alessandro Gazzi
«Ho raccontato una storia come tante»: Alessandro Gazzi, “mediano qualunque” con 220 presenze in A (Reggina, Bari, Siena, Torino, Palermo) e oggi collaboratore del tecnico Longo all’Alessandria, parla della storia sua, che non sarebbe niente di speciale se non per come l’ha raccontata e perché se l’è scritta da sé pagina dopo pagina. Gazzi ama (e sa) scrivere, ha un blog che è il seme da cui è germinato il libro, scrive recensioni per la rivista L’Indice e aveva già pubblicato un lavoro ( Dieci minuti ) scelto per un’antologia di racconti sportivi della casa editrice 66thand2nd, la stessa che gli ha dato la possibilità di pubblicare il suo esordio letterario,
Un lavoro da mediano. Ansia, sudore e Serie A: racconta di vent’anni di carriera, con quel po’ di aneddotica tipica del genere autobiografico, ma soprattutto «delle montagne russe che mi sono sempre portato dentro», di emozioni e insicurezze, di orgoglio e timidezza, di tutto quello che ribolle dentro un calciatore quando gioca e di cui adesso noi spettatori possiamo finalmente avere un’idea.
«Lo so che non è niente di speciale, ma ho scritto per condividere quello che si prova a stare in campo. Lì dentro ti attraversano emozioni estreme, sei talmente concentrato, un tutt’uno con quello che fai, che poi viene facile descriverle come fossero un film».
È come se lei avesse messo in immagini quello che provava giocando: ha tenuto un diario delle sue sensazioni?
«Se l’avessi fatto, avrei materiale per non so quanti libri. In realtà in me restano ricordi precisi, nitidi. Però in certi casi sono andato a cercarmi le immagini o a rileggermi le cronache per capire se quello che stavo scrivendo lo avevo realmente vissuto».
L’apoteosi del libro è il racconto di un Torino-Inter del 2014, uno scialbo 0-0 in cui lei fu il migliore in campo: è una narrazione quasi epica, dalla sua prospettiva interiore.
«Le sensazioni di quel giorno me l’ero segnate tutte, perché è la partita che mi ha come sbloccato, non a caso l’anno successivo è stato il mio migliore. Ho toccato l’apice, come se avessi fatto pace con me stesso, ho finalmente smesso di tempestarmi di domande e mi sono goduto l’ultima fase della mia carriera».
Che era cominciata male: odio il calcio, diceva il Gazzi ventenne.
«Ero talmente frustrato dalle aspettative disattese da me stesso che ero arrivato a pensarlo».
“Perché sono fatto così?”, continua a domandarsi nel libro.
«Sono sempre stato molto autocritico, nei primi anni giocavo così concentrato come se non dovessi mai sbagliare un passaggio, mi sono spesso sentito inadeguato.
La mia fortuna è stata trovare Conte e Ventura, due allenatori con la stessa visione tattica ma con due filosofie opposte per vincere: uno con la ferocia, l’altro con il divertimento».
Descrive il patimento di certe partite giocate “con la paura fottuta di stoppare una palla”.
Scrivere le risulta più rilassante?
«È un piacere, è divertente, è stimolante. E mi consente di giudicare me stesso. Ho cominciato su consiglio di una psicologa dello sport, Gabriella Starnotti: mi interessava il nesso tra flow, flusso, e performance ottimale e mi ha chiesto di provare a scrivere un testo su quello che mi capitava in campo. Io sono molto timido e a voce faccio fatica a esprimermi. Con la parola scritta, invece, mi sono scoperto a mio agio».
Soprattutto per raccontare pensieri e sensazioni.
«L’aspetto emozionale è quello principale, nel calcio. Sembra tutto così scontato, per lo spettatore: ti vede giocare bene o male e non sa del tumulto o dello stato di grazia che magari ci attraversa quel giorno».
Quanto si discute di libri in uno spogliatoio?
«Ogni tanto ne ho parlato con i compagni, ma non ho mai avuto grandi riscontri. Leggere non è proprio una delle attività più diffuse, ma non solo nel nostro ambiente: mi sembra sia così un po’ dappertutto, in Italia».
Farà lo scrittore, da grande?
«Vediamo come verrà accolto questo libro. Adesso sono impegnato con altro, sto facendo questa esperienza ad Alessandria che è molto formativa: osservo, imparo, assorbo.
Comunque non sono uno scrittore, sono un lettore. Ho sempre letto molto, qualcosa ogni giorno, di ogni genere, libri, riviste, saggi. È leggere che mi ha dato un’idea di come scrivere, non ho conoscenze in ambito letterario o semiotico, quelli sono studi di decenni fa, quando mi ero iscritto al Dams. Ma la lettura mi ha aiutato a costruirmi un background lessicale e grammaticale che mi è servito perlomeno a scrivere periodi che abbiano un senso. Mi basta che non passi l’idea che ho un ghostwriter: ho solo raccontato la storia di uno come tanti, ma l’ho scritta di mio pugno».