Corriere della Sera, 10 marzo 2022
Endurance a 3mila metri sotto ai mari
Chi ha letto il libro di Alfred Lansing, «Endurance: l’incredibile viaggio di Shackleton», lo andrà a rispolverare. Chi non lo ha letto lo leggerà. Perché solo conoscendo la vera storia di Sir Ernest Shackleton e di come salvò, in condizioni impossibili, l’intero equipaggio bloccato per tre anni al Polo Sud si può comprendere l’entusiasmo generato dal ritrovamento della nave Endurance dopo 107 anni. «Il legno del relitto sembra fresco come se fosse appena finito dentro le acque dell’Antartide. Si legge anche la scritta a poppa», ha commentato con comprensibile euforia Mensun Bound, direttore britannico della spedizione. Per un archeologo marino è come aver ritrovato la tomba di Tutankhamon sottacqua.
I droni sottomarini
Il relitto è stato individuato grazie ai droni sottomarini a una profondità di 3.008 metri nel Mare di Weddell, fra le acque più fredde del pianeta, a circa sei chilometri da dove l’imbarcazione era stata lentamente frantumata dai ghiacci nel 1915. In effetti di quella spedizione avevamo tutto: le lastre in argento che il fotografo della spedizione di Shackleton, Frank Hurley, salvò dalla nave e portò con sé fino al 1917 (altro libro da non perdere pubblicato in Italia da Nutrimenti: «Shackleton in Antartide. La spedizione nelle fotografie di Hurley»); le coordinate esatte – 69° Sud, 51° Ovest – dove l’equipaggio dovette abbandonare, nell’ottobre del 1915, la relativa sicurezza della nave stritolata dai ghiacci; alcuni oggetti della missione; il diario di bordo del capitano (di cui si sconsiglia la lettura se non ai veri maniaci dei particolari); paradossalmente, anche se chiaramente ormai sono tutti scomparsi da tempo, avevamo anche l’intero equipaggio di 27 persone che Shackleton salvò e riportò in patria.
L’unica cosa che mancava era proprio la nave, scoperta a pochi giorni di distanza dal centenario della morte di Shackleton (il 5 gennaio 1922). E a poche settimane dal ritrovamento, nelle acque degli Stati Uniti, dell’Endeavour, il vascello del grande esploratore del Settecento, James Cook. Ma ora è il momento dell’Endurance, la cui forza narrativa è strettamente legata all’inverosimile eppure vera serie di vicissitudini che portarono 28 persone a sopravvivere in condizioni impossibili (tre anni sul pack). Nessun essere umano moderno potrebbe farcela con l’equipaggiamento dell’epoca.
Dagli abissi alla Luna
Shackleton è anche il nome di un cratere che si trova, non a caso, al Polo Sud della Luna. Ed è citato nel film «The Martian» con Matt Damon agronomo spaziale. La storia. Dopo il raggiungimento del Polo sud da parte di Roald Amundsen con la nave Fram (in un museo a Oslo), l’unica conquista di prestigio che rimaneva era la traversata del continente antartico. Ma stavano arrivando i venti della Prima guerra mondiale. Lo stesso Shackleton chiese alla Marina di Sua Maestà se avesse dovuto mettere a disposizione dell’Inghilterra l’Endurance. Alla fine partì. La guerra scoppiò. E l’equipaggio fu dimenticato. La determinazione del capitano è tale da essere studiata in molte scuole di business come esempio di leadership.
Dopo aver portato tutti sull’isola di Elephant, usò una semplice scialuppa per raggiungere la Georgia del Sud, con una decisione quasi incongrua: portò con sé non i migliori, ma i piantagrane che sapeva avrebbero abbattuto il morale degli altri sopravvissuti. Quelle 870 miglia marine percorse in 15 giorni gli valgono il titolo di miglior marinaio della storia. Un particolare: Alfred Lansing fu un marinaio prima di diventare un giornalista. La sua passione lo ripagò facendogli scrivere il resoconto del secolo.