Corriere della Sera, 10 marzo 2022
Intervista a Antonello Cuccureddu
L’ultimo romantico del calcio si chiama Antonello Cuccureddu, ha 72 anni e 434 partite alle spalle con la maglia della Juventus, per la quale ha firmato 28 gol, sei scudetti, una Coppa Italia e una Coppa Uefa. Il suo nome è stampato su una delle 50 stelle della Walk of Fame allo Stadium di Torino. E forse è anche per questo scarto tra ordinarietà e leggenda che è diventata virale la foto che gli ha scattato ad Alghero sabato mattina il primogenito Luca, mentre tracciava le linee del campo con la calce, poi pubblicata dalla pagina Facebook di «Calcio – Ultimi Romantici».
«Cuccu», ma fa sempre lei quel lavoro?
«No, qualche volta anche mio figlio. Ma io mi diverto! Quando ero bambino giocavo sul fango, per strada. Adesso per molti genitori senza il sintetico sembra che i figli non possano giocare. E invece impari di più: uno stop su questo campo ha rimbalzi diversi. E comunque il nostro è bello morbido, sabbioso».
La traccialinee sembra una carriola con il coperchio. Come funziona?
«Ah, fa benissimo il suo lavoro: stendiamo il filo prima sull’area, poi sulle linee laterali, quindi si traccia e si passa sopra con la calce. Se non piove, dura due settimane. Sabato dovevo farlo perché giocavano i miei esordienti, che hanno 10-11 anni: il nostro campo è regolamentare, ma loro giocano a nove».
Tutto questo succede nella sua scuola «Apd Antonello Cuccureddu 1969»: l’anno dell’esordio in Serie A.
«In due anni ero passato dal Fertilia alla Torres al Brescia alla Juventus. La prima partita in maglia bianconera la giocai proprio in Sardegna, contro quel Cagliari di Gigi Riva che a fine stagione avrebbe vinto lo scudetto. Il giorno dopo un giornale titolò “figlio cattivo”, perché avevo segnato il gol del pareggio. Ma io giocavo per vincere, sempre, anche quando dopo dodici anni lasciai la Juve per la Fiorentina e mi ritrovai ad affrontare i miei ex compagni».
Come fu il salto a Torino?
«Tanti sardi mi aiutarono, io avevo appena vent’anni. Il primo che conobbi e con cui sono rimasto amico è Scanu, il parrucchiere che aveva il negozio vicino allo stadio. Ma anche con i compagni mi sono trovato subito bene: Cabrini, Benetti, Gentile... Con lui uscivamo sempre, prima di sposarci».
E sua moglie è sarda o «continentale»?
«Mia moglie, Ivana Mazzi, è toscana. L’avevo conosciuta nel ristorante dove andavamo a mangiare, lei era lì con amici. Non capisce nulla di calcio, credo sia venuta a una sola partita in tutta la mia carriera, e forse è stata una delle mie fortune. Ma se l’immagina se tornavo a casa dopo aver perso e mi toccava litigare sulla prestazione?».
Sogna ancora le partite?
«Eh sì. A parte l’esordio, la partita che non posso dimenticare è quella contro la Roma che ci fece conquistare lo scudetto del ‘73, all’ultima giornata di campionato. Segnai il gol della vittoria a tre minuti dalla fine. A quei tempi si scendeva in campo con la radio in panchina per sentire cosa facevano le altre squadre: il Milan, che in classifica era in vantaggio di un punto, stava perdendo. Allora le persone giocavano la schedina tutte le settimane, le famiglie riempivano gli stadi. Era un altro mondo...».
O Rey e Pinturicchio
Fui il primo ad allenare Alessandro Del Piero L’emozione più grande? Aver incontrato Pelé
Gli incontri che l’hanno emozionata di più?
«Mi sono emozionato molto con Pelé in Canada. E poi con Sivori in Argentina, nel 1978: era il mio idolo. Nella mia Club House, qui ad Alghero, ci sono tutte le foto: il debutto in Nazionale con Giacinto Facchetti, quella con Paolino Rossi, gli scudetti...».
Dopo, allenò anche un giovanissimo Del Piero.
«Sì, nella Primavera della Juve. Che ragazzo straordinario...».
Sta cercando un nuovo Del Piero nella sua scuola?
«Ancora non l’ho trovato, ma si nota già da piccoli quando hanno quel talento in più e bisogna seguirli e accompagnarli. Dalla prossima stagione, comunque, vorrei far decollare un progetto che coinvolge la Juventus. Qui di fianco a me c’è l’Alghero che è gemellata con il Cagliari Calcio».
Quali regole impone?
«La scuola prima di tutto: se uno va male a scuola sta in panchina. E poi, seconda regola, gioca solo chi si allena. Ai genitori suggerisco, se i ragazzini non studiano, di togliergli per punizione il telefonino o il computer o la bicicletta, ma non lo sport, che è scuola di vita: altrimenti gli viene la depressione».
E i genitori-allenatori li incontra mai?
«Devo dire che sono tutti molto rispettosi, e poi io i loro figli li faccio ruotare sempre. Ma quando qualcuno esagera faccio una domanda semplice: ma tu nella vita hai giocato al calcio? No. E allora guarda e ascolta. E nessuno protesta».
Se va a Torino a vedere una partita paga il biglietto?
«Eh, se dovessi comprare il biglietto significa che il mondo è crollato».