Corriere della Sera, 10 marzo 2022
Il prezzo per fermare Putin sale ogni giorno
Il primo Paese mai preso di mira da sanzioni internazionali fu l’Italia, nel 1935. Mussolini aveva scatenato l’aggressione dell’Etiopia, raccomandando ai generali di usare armi chimiche. Da Addis Abeba il Negus Hailé Selassié si appellò alla Società delle Nazioni, in modo non molto diverso da come oggi il presidente ucraino Volodymyr Zelensky si rivolge alle Nazioni Unite, all’Unione europea o alla Nato.
Francia e Gran Bretagna si trovarono di fronte a un dilemma simile a quello che oggi divide le democrazie: fino a che punto conveniva prostrare l’economia italiana con durissime sanzioni, per fermare la guerra? Parigi e Londra temevano di svuotare di credibilità la Società delle Nazioni prendendo misure troppo lievi, perché contavano che essa potesse tenere a freno la Germania nazista; ma non volevano punire troppo Mussolini, perché speravano di fare anche di lui un alleato contro Hitler. Finirono così per escludere dalle sanzioni la vendita di petrolio e carbone all’Italia e, in un colpo, mancarono tutti gli obiettivi. Mussolini macchiò l’Italia di crimini atroci, finì per schierarsi con Hitler, mentre la Società delle Nazioni ne uscì moribonda.
L’esperienza dice che, quando si impongono sanzioni, occorrono idee chiare su ciò che si vuole. Bisogna darsi un singolo obiettivo e scegliere lo strumento adatto per raggiungerlo: chi subisce la punizione deve sapere quale sarà il danno e a quali compromessi dovrà scendere per mettervi fine. Ma noi europei, di fronte al dramma dell’Ucraina, lo abbiamo capito?
Se si guarda alle dichiarazioni del Consiglio dell’Unione europea, non si direbbe. Dopo l’ingresso delle truppe russe nel Donbass, da Bruxelles si sono imposte sanzioni dapprima lievi chiedendo la fine dell’aggressione, il ritiro delle forze russe e il rispetto «della sovranità e integrità territoriale» ucraina. Quando poi l’attacco si è esteso a tutto il Paese, ogni giorno più efferato, l’Unione europea ha varato nuovi cicli di misure vantandosi di quanto dure esse fossero. Bruno Le Maire, il bravissimo ministro dell’Economia francese, ha parlato di «guerra economica totale contro la Russia».
Ma nessuno in Europa ha mai spiegato a cosa esattamente debba servire questa «guerra». Vogliamo costringere Putin a ritirarsi dall’Ucraina? Puntiamo alla sua caduta, incoraggiando a una rivolta nelle forze armate e fra gli oligarchi? Miriamo a indebolire la Russia nei prossimi anni? O stiamo semplicemente cercando di mostrare che facciamo qualcosa, senza voler combattere per l’Ucraina né smettere di comprare dalla Russia così tanto gas, petrolio e carbone che quest’anno potremmo portare nelle casse del Cremlino 300 miliardi di euro?
La confusione degli obiettivi e dei tempi si nota ovunque nelle sanzioni europee, soprattutto se confrontate a quelle americane. Vietiamo l’esportazione di prodotti a uso «duale» – civile e militare – ma con esenzioni fino al primo maggio, se i russi ci promettono che la merce non finirà alle forze armate (buona fortuna). Blocchiamo la vendita di tecnologie per l’industria del petrolio, ma solo dal 27 maggio e anche dopo «possono ottenersi specifiche licenze». Impediamo la vendita di tecnologie dell’aeronautica, ma solo dal 28 marzo. E anche la sospensione di sette banche russe dai sistemi di pagamento internazionali scatta per gli europei solo dal 12 marzo esentando Sberbank e Gazprombank, prima e terza banca del Paese. A porte chiuse, i negoziatori di Berlino hanno chiesto di tenere fuori Sberbank, perché temono le conseguenze di un suo fallimento. Ed è interessante che la Casa Bianca preveda le stesse sanzioni dell’Unione europea ma le ha già fatte scattare una settimana fa, senza rinvii.
Sostenere che questo pacchetto sia leggero naturalmente sarebbe ingiusto. Hanno avuto i propri beni sequestrati in Europa 875 persone, a ieri sera. Per la prima volta vengono bloccate le riserve in valuta estera di un grande Paese, che non potrà più usare euro, dollari o sterline per difendere la propria moneta e finanziare le attività nel mondo delle aziende nazionali. La Russia oggi è ridotta all’autarchia. Metà della flotta area civile, in leasing da una compagnia americana, verrà messa a terra per dare pezzi di ricambio all’altra metà che vola. Centinaia di colossi globali – da Maersk nella logistica, alla cinese Lenovo nei computer, alla coreana Samsung – fuggono per non lasciarsi macchiare da uno Stato-canaglia. Le élite e i ceti medi di Mosca o San Pietroburgo non avevano libertà politiche, ma fino a due settimane fa vivevano il resto della vita come i loro simili di Milano o Parigi. Ora sono tornati di colpo in Unione Sovietica.
Il problema è che tutto questo è già successo in Venezuela o in Iran e non ha portato né a un cambio, né a un’inflessione del regime al potere. Obiettivi confusi vengono mancati sempre. La guerra in Ucraina ha costi militari diretti stimati fra 400 milioni e un miliardo al giorno, eppure noi europei continuiamo a fornire queste risorse al Cremlino perché per ora non possiamo (o vogliamo) rischiare problemi sulle forniture di gas, petrolio e carbone. Sberbank e Gazprombank agiscono da surrogati della banca centrale gestendo quantità di euro e dollari persino superiori a quelle che abbiamo congelato nelle riserve ufficiali, perché glieli diamo noi per l’energia. Poi il passare del tempo rivelerà sempre interstizi attraverso i quali certe sanzioni diventano aggirabili.
Come uscire da questo pantano? Bloccare il petrolio russo e limitare gli affari sul gas per l’Europa è più duro che per gli Stati Uniti – che l’hanno annunciato mercoledì – perché, per esempio, consumiamo 37 volte più greggio di Mosca del nostro alleato. Ma muovere adesso dei passi su questo fronte priverebbe Putin di somme fra cento e duecento miliardi di entrate quest’anno. Può essere il colpo che spezza il suo sistema di potere, mentre i rincari dell’energia innescherebbero una recessione internazionale che – stima Goldman Sachs – ridurrebbe la crescita italiana nel 2022 del 2,6%. Il prezzo per fermare Putin è alto, sale ogni giorno e va misurato contro il rischio di un allargamento della guerra. Ma siamo democrazie: il posto ideale per un confronto aperto con i cittadini sui costi, i benefici e i sacrifici necessari, o gli indennizzi per i Paesi, le famiglie e le imprese più esposte. È il momento di decidere cosa siamo pronti a fare per i valori che diciamo essere i nostri