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 2022  febbraio 16 Mercoledì calendario

Biografia di Natascha Kampusch

Natascha Kampusch, nata a Vienna (Austria) il 17 febbraio 1988 (34 anni) • «Un nome che in Austria tutti conoscono» (Marina Verna, La Stampa, 25/8/2006) • Il 2 marzo 1998, quando aveva solo dieci anni, fu rapita da uno squilibrato, Wolfgang Prikilopil, tecnico elettronico, che la tenne prigioniera per otto anni. Solo il 23 agosto 2006, ormai diciottenne, approfittando di un suo momento di distrazione, riuscì a fuggire (e lui, scoperta la fuga, si gettò sotto un treno) • «La sua terribile storia a lieto fine, nell’agosto 2006, ha fatto il giro del mondo» (Nick Harding, Panorama 22/9/2016) • «Una storia che affonda le sue radici più profonde nei meandri della psiche umana e nel suo lato oscuro. Un incrocio tra una sceneggiatura di Stanley Kubrick e un’avventura dei primi Dylan Dog, dove l’orrore si rivelava per quello che in fondo è: ossessione portata al parossismo» (Andrea Cappelli, Libero, 28/1/2016) • «Una storia incredibile, come solo sa esserlo la realtà, più di qualsiasi trama immaginata» (Marina Corradi, Avvenire, 25/8/2006) • «Oggi Natasha è esattamente quella che appare dalle fotografie, capelli biondo-cenere e occhi chiarissimi che preferiscono deviare sul soffitto, piuttosto che fissarsi sul suo interlocutore. Del resto, il suo rapitore, Wolfgang Priklopil, non tollerava che lei lo guardasse negli occhi e la costringeva sempre a guardare per terra» (Paolo Di Stefano, Corriere della Sera, 1/5/2011) • Ancora oggi, a distanza di tanti anni, si chiede: «Perché proprio io?».
Titoli di testa Vienna, quartiere-dormitorio Strasshof (via della Fattoria), mancano pochi minuti alle 13 di mercoledì 23 agosto 2006. Al 60 di Heinestrasse, fra le ville coi cigni di gesso e le siepi d’alloro pettinate, c’è una casetta beige con le parabole sul tetto. Nel giardino, una diciotto-diciannovenne con gli occhi blu e i capelli chiari, piccolina e magrissima, sta passando l’aspirapolvere nella Bmw rossa di un ossuto quarantenne che la osserva mentre parla al cellulare. Siccome il rumore è troppo forte e non riesce a sentire quello che gli dicono, il tizio, che si fa chiamare «Gebieter», mio maestro, rientra in casa. Appena se ne accorge, la ragazza getta l’aspirapolvere, percorre cercando di non farsi vedere i cinque metri che la separano dal cancello, poi comincia a correre più forte che può. Fatti duecento metri, entra in un altro giardino. La vecchietta di ottant’anni che la vede arrivare davanti alla porta si spaventa e pensa di chiamare la polizia, ma prima che ne abbia il tempo l’intrusa le dice: «Sono Natascha Kampusch, mi aiuti per favore». «Chi, la bambina rapita tanti anni fa mentre andava a scuola?».
Vita Nome completo: Natascha Maria Kampusch. Figlia di Ludwig Koch e Brigitta Kampusch. Infanzia difficile. «Cresce in una grande casa popolare, una madre energica, due sorellastre, un padre panettiere che passava le notti a bere con gli amici, due piccole botteghe di alimentari aperte dai genitori. Con la loro separazione, arrivano le serate in birreria in compagnia di un padre con Cadillac ma pieno di debiti, i litigi violenti tra papà e mamma, le incomprensioni di Natascha con sua madre e con le maestre, gli sfottò dei compagni quando si faceva la pipì addosso, la rabbia. Una sera, la bambina torna a casa in ritardo dopo il weekend con papà, la madre è infuriata, e se la prende anche con la figlia. Che la mattina dopo va a scuola senza neanche dire ciao alla mamma» (Di Stefano) • È il 23 marzo 1998. Natascha porta la frangetta e una giacca rossa di lana cotta. Mentre cammina verso la scuola, ha ancora in testa il litigio appena avuto con la madre. All’improvviso, vede un uomo che aspetta davanti a un furgoncino bianco e si insospettisce, per un attimo pensa di cambiare strada, poi si dice che è una paura insensata. «I miei occhi incontrarono i suoi, erano azzurri, aveva i capelli lunghi, sembrava un hippy degli anni settanta. Pensai che sembrava quasi più debole di me, più insicuro». Invece, lui la acciuffa, la carica sul furgone, la copre con un plaid e le parla chiaro: stai zitta, o sono guai. «Non so se gridai, se mi difesi. Non lo so, non lo ricordo». Quando lei, più tardi, gli confiderà il suo rammarico per non aver ascoltato quel presentimento, lui le risponderà: non t’illudere, se non era quel giorno, ti avrei preso quello dopo • L’ultimo a vedere Natascha è un bambino di 12 anni: racconta che qualcuno (secondo lui due persone) l’ha tirata dentro a un furgone bianco (Mercedes Kastenwagen). La polizia interroga centinaia di proprietari di veicoli simili a quello descritto dal testimone. Tra questi il trentaseienne Wolfgang Priklopil, un tecnico elettronico che, dopo essere stato licenziato dalla Siemens (dove lo ricordano «solitario e sadico»), compra vecchi appartamenti, li ristruttura e li rivende: descritto dai vicini come scapolo scontroso e solitario, spiega ai detective che il furgone gli serviva per trasportare materiale edile (infatti - notano i poliziotti - ha a bordo piastrelle e mattoni). Poiché ha pure un alibi, non viene più indagato (Verna) • Wolfgang porta Natascha in una casa alla periferia di Vienna e la rinchiude in un seminterrato, un loculo di cinque metri quadri arredato alla meno peggio: un bagno, doppio lavandino, uno scaffale per i libri, una scatola a fiori per fazzolettini e assorbenti, un mobiletto per la tv (scollegata dall’antenna ma con videoregistratore), una radio • Priklopil ha costruito la segreta a metà degli Anni 90 quando, morto il padre, la madre gli ha ceduto la villetta e si è trasferita nell’appartamento alla periferia di Vienna dove viveva lui. «Aveva costruito la cella nel suo garage con saracinesca bianca. Bastava aprire le ante di un mobiletto bianco per trovarsi una lastra di metallo, chiusa a chiave. Dietro quella specie di cassaforte di 50 centimetri per 50, partiva la breve scala per l’abisso. Lì, il maestro, percorreva i nove gradini ed entrava nella casa sotterranea. Ogni volta che aveva voglia» (Piero Colaprico, la Repubblica, 8/2006). «Lui regolava la mia veglia spegnendo o accendendo la luce, decideva se privarmi del cibo o farmi mangiare, mi imponeva periodi di digiuno forzato, decideva le razioni di cibo, fissava la temperatura nella stanza. Decideva lui se avevo caldo o freddo. Mi ha tolto ogni controllo sul mio corpo, mi picchiava in continuazione» (a Di Stefano). «Passato il primo periodo in cui speravo ancora di essere trovata, ho pensato che sarei morta e poi ho cominciato ad avere la certezza che avrei passato tutta la vita con lui nello scantinato. Lui stesso mi diceva che non mi avrebbe mai liberata. Ero diventata una sua creazione, mi sentivo condannata a questa pena e mi chiedevo spesso qual era la mia colpa» (a Di Stefano) «Natascha ricorda il terrore che il suo rapitore non tornasse più (“se lui fosse scomparso, sarei morta anch’io”), il ribrezzo e il sollievo di rivederlo, l’ambiguità dei rapporti, necessaria per sopravvivere: “Dovevo accettare, a volte apparire sottomessa per sopravvivere, altre volte dovevo impormi e sembrare più forte di lui: non ho mai obbedito quando mi chiedeva di chiamarlo padrone”. Anche questa testardaggine l’ha salvata: “È difficile da capire, se non sei coinvolto. Io a volte mi sentivo molto forte e cercavo di fargli riconoscere la sua debolezza. Sono cristiana e battezzata e credo nel bene racchiuso in ogni persona. Così, credo nel perdono. Io lo consolavo per il crimine che aveva commesso contro di me, dovevo riuscire a vivere con quella persona...”. Una relazione forzata sempre e a tratti rovesciata. Poi, d’improvviso, le crudeltà: “I tuoi genitori non vogliono pagare il riscatto, non hai più famiglia, sono io la tua famiglia”, si sentiva ripetere. Poi di nuovo quel che può apparire assurdo. “Dopo un paio di mesi passati in prigione, lo pregai per la prima volta di abbracciarmi. Avevo bisogno del conforto di un contatto, di sentire il calore umano... Mi sentivo infinitamente piccola e debole”» (Di Stefano) • Una notte, lui le permette di lasciare brevemente la cella. Lei strappa un paio di foglie dalla siepe, le porta con sé nel seminterrato e le ripone in una scatola. «Erano seccate quasi subito, ma non importava. Quelle foglie le avrebbero permesso di non dimenticare l’esistenza delle piante, della terra, del cielo e dell’aria» (Frauke Hunfeld, D, 15/10/2016). Col tempo, i sentimenti di Natascha per il suo rapitore diventano sempre più ambivalenti. «Una simbiosi da delirio, da favola oscura, come se Cenerentola avesse incontrato Barbablù» «Priklopil da un lato la maltrattava e dall’altro le riservava gesti di tenerezza. Nei primi anni si sedeva con lei nel seminterrato, le dava da mangiare, le lavava i denti e le leggeva le storie della buonanotte» (Harding). Quando comincia a crescere, cerca di darle un’istruzione, le permette di leggere dei libri: Curd Jürgens, 60 anni e per niente saggio; Theodor Kröger, Il villaggio dimenticato; un libro su L’ingresso negli Anni 2000; uno sul triangolo delle Bermude e un paio di volumi sulla Formula 1. Registra per lei i cartoni animati e ne tiene un catalogo minuzioso: Tremotino, Cappuccetto Rosso, Il Principe Ranocchio • «Ha anche raccontato che, al mattino, “facevamo colazione insieme”. Poi Wolfgang, “mi salutava” e andava a lavorare, lei scendeva i nove gradini e veniva spedita nella cella sotterranea» (Colaprico) • «Ci sono stati anche dei momenti felici? (Natascha sembra riflettere per un momento). “Ci sono Paesi in cui le persone muoiono di fame e di sete. Luoghi in cui non esiste la corrente elettrica. E anche in quelle condizioni le persone vivono momenti felici”» (Hunfeld) • Spiega il professor Max Friedrich: «Lui deve aver fatto di tutto per tenerla bambina, impedirle di crescere. Solo così poteva avere il controllo assoluto». Lo psichiatra Massimo Ammaniti: «Spesso la vittima può erotizzare la dipendenza. Fra i due potrebbe essere nata una storia» • Quando lei compie quattordici anni, Priklopil la costringe a dormire nel suo letto ammanettata a lui. Ossessionato dalla pulizia, la obbliga a passare l’aspirapolvere seminuda. Le impone di cambiare nome da Natascha a Bibiana. «“Quelli che hanno fatto insinuazioni sugli aspetti sessuali della mia prigionia parlavano di se stessi, esprimevano le loro fantasie per indurmi a svelare la mia intimità. Certe cose però restano solo mie, sono l’ultimo residuo privato che voglio mantenere per me”. Tra le vessazioni quotidiane, i calci, i pugni in testa, i morsi, le prese alla gola, gli spintoni giù dalle scale, la fame, “mi sottopose anche a piccoli abusi sessuali”. Punto. “Sì, l’ho odiato, ma credo che quando si odia qualcuno, si odia anche se stessi. Spesso l’odio nasce dall’impotenza”» (Di Stefano) • A poco a poco, negli anni, Wolfgang comincia a portarsela dietro in montagna o al supermercato. Lei oscilla tra l’idea del suicidio e quella della fuga, soffocata però dal terrore di essere riacciuffata e uccisa («se provi a scappare, uccido te e tutti gli altri»). Per metterle paura, dice di dormire con delle bombe a mano nascoste sotto il cuscino • «Il 23 agosto 2006, però, ecco la possibilità di salvezza: Priklopil, intenzionato a vendere la sua auto, chiede alla ragazza di lavarla. Il getto della pompa, piuttosto rumoroso, costringe il rapitore ad allontanarsi di qualche metro per telefonare. Qualche secondo di distrazione che la Kampusch sfrutta a suo vantaggio: si lancia di corsa verso il cancello; solitamente c’è qualche oggetto pesante a impedirne l’apertura, quel giorno no. È fuori, nel mondo esterno. È libera, e continua a correre verso la salvezza» (Cappelli). Quando Wolfgang, finita la telefonata, rientra in casa e si accorge che la ragazza è scappata, capisce che non ha tempo da perdere. «Sale sulla sua Mercedes rossa e si dirige verso Vienna. La polizia lo intercetta, lui la semina. Qualche ora dopo entra nel garage di un centro commerciale e chiama un socio, una delle pochissime persone di cui può dirsi amico. Gli dice di essere stato sorpreso al volante ubriaco, deve scappare, per favore venga a prenderlo. L’amico arriva, lo carica in macchina e lo porta dove vuole: alla stazione di Leopoldstadt. Prikilopil non compra un biglietto, ma aspetta il regionale delle 21 e si getta sotto» (Verna). «Si dice, tra gli esperti dei drammi umani, che chi si uccide facendosi maciullare da un treno lo fa perché si odia, odia il suo corpo» (Colaprico). Francesco Bruno, criminologo della Sapienza: «Non si è ucciso per vergogna, rimorso o paura, ma perché aveva perso l’oggetto del suo amore patologico». Quando la polizia informa Natascha che Wolfgang si era gettato sotto un treno, lei non sembra sorpresa: le aveva sempre detto che non si sarebbe lasciato prendere vivo.
Polizia In Austria, il suo diventa il caso di cronaca più clamoroso del dopoguerra. Al momento della liberazione, alta un metro e sessanta, 42 chili, la pelle bianca e coperta da macchie (per via della poca luce cui è stata esposta in questi anni). Non ha carie. Ai primi agenti che la presero in custodia, disse di avere «la testa a posto, anche se il tempo mi sembra fermo al 1998».
Vicini «La litania degl’increduli vicini. “Teneva sempre le tapparelle giù”, dice Georgios, pensionato d’origine greca. Qualcuno l’aveva vista, quella ragazzina: “Ma pensavamo fosse una fidanzatina”. Il lupo Wolf non dava molta confidenza. Ogni tanto tirava ai colombi col suo fucile, nessuno s’impicciava. “Due anni fa, mi aveva bloccato per chiedermi se vendevo la mia Bmw”, ricorda Anne Marie Fuchs, 58 anni: “Ne ero quasi lusingata, pensavo volesse corteggiare me”» (Battistini). Un’anziana vicina, però, lo descrisse subito come un pazzo: «In pubblico non diceva mai una parola, ma di notte io lo sentivo prendere le sedie, i mobili, e spaccarli contro il pavimento. Lo sapevano tutti, io stessa ho chiamato la polizia, ma mi dicevano di portare pazienza» (Colaprico).
Psicologi «I primi momenti di libertà se li ricorda? “Benissimo. Era tutto troppo. Troppa luce, troppo rumore, troppe emozioni in contrasto tra loro. Felicità, ma anche paura. Avevo problemi di equilibrio e camminare in discesa, lungo una scarpata o su un terreno scosceso, mi metteva a disagio. Non ero in grado di determinare le distanze. Il mio stomaco, per via della continua mancanza di cibo, era diventato ipersensibile. E poi c’erano persone che in continuazione venivano da me dicendomi che sapevano quanto la vita fosse perfetta e cosa avrei dovuto fare per viverla al meglio. Un medico mi sventolò sotto al naso un contratto che mi avrebbe obbligata a essere a completa disposizione della ricerca scientifica per dieci anni. Tutti non facevano che dirmi: ‘Devi firmare qui, devi firmare là. Devi solo fare quello che ti diciamo e, vedrai, tutto andrà bene’”. I suoi genitori non potevano aiutarla? “I miei genitori sono separati e anche per loro tutto questo delirio era troppo. E poi, inizialmente, non li ho nemmeno incontrati spesso. Venivano tenuti lontani da me, per quanto possibile”. I terapeuti, gli avvocati, non le davano supporto? “Mi resi conto fin da subito che la maggior parte dei consulenti con cui avevo a che fare, o non sapevano come comportarsi o erano interessati solo al proprio tornaconto. Volevano accaparrarsi il pezzo più grande della torta”. E la torta era lei? “Non io, ma la mia storia e tutto quello che se ne poteva ricavare. Non ero in grado di fare ordine nel caos. Gli avvocati mi strattonavano da una parte all’altra”. In senso lato... “No, letteralmente. Uno degli avvocati un giorno diede persino una manata a un collega. Questo accadeva nella mia stanza d’ospedale, nel reparto di psichiatria infantile dove ho trascorso i primi tempi. Gli altri pazienti del reparto, al confronto, mi sembravano quelli più sani di mente”» (Hunfeld).
Genitori Litigò con il padre quando scoprì che era tra coloro che sospettavano che il rapimento fosse stato organizzato dalla madre («Ero molto arrabbiata con lui. Mi ha fatto veramente soffrire»). Litigò anche con la madre quando scoprì che lei, dopo la sua liberazione, aveva firmato un contratto per un libro, La vita senza Natscha, senza dirle niente («nel libro vennero pubblicate cose che le avevo raccontato nell’intimità e che non erano destinate al pubblico»).
Eredità Alla morte del suo aguzzino, la casa dove era tenuta prigioniera è andata per due terzi a lei (come indennizzo concesso dal tribunale) per un terzo alla madre del rapitore, che non si era mai accorta della sua presenza nel seminterrato. Lei ha acquistato anche l’ultimo terzo, ma non ci è più tornata. A un certo punto, ha pensato di farne un alloggio per rifugiati, ma i vicini non hanno voluto.
Curiosità «Oggi è una donna allegra e interessante, per quanto vigile; a tratti affascinante nella sua ingenuità; a tratti ancora oppressa dall’orrenda esperienza che ha vissuto e continua a rivivere» (Harding) • Negli ultimi anni ha lavorato a Vienna nel web marketing • Parla un inglese quasi perfetto • Le piacciono la musica, il canto, i film, i romanzi di Agatha Christie e l’equitazione • È vegetariana • Portavoce dell’organizzazione Peta, a sostegno dei diritti degli animali, si è spesa contro la crudeltà di tenere bestie in gabbia • Ha finanziato un reparto di un ospedale pediatrico in Sri Lanka • Va spesso a trovare i suoi parenti, ma vive da sola e non vuole dire se sia stata in grado di stringere una relazione con un uomo • Ha scritto due libri: 3096 giorni (2010) e Dieci anni di libertà (2016) • Ha trovato un modo per tenere a bada i suoi demoni: «Chiamo quello che faccio “pulizia psicologica”: è come lavarsi la faccia, ma agisco sulla mia psiche. Ho dei ricordi di ciò che è accaduto in tutti quegli anni, ma non uso quei ricordi. Sono conservati nella mia testa, come in un archivio, ma non mi lascio controllare da loro» • «Qualche volta, quando non vola una mosca e sono da sola, mi torna tutto alla mente» • «È un peso, un macigno. Non mi piace nemmeno andare in vacanza, mi fa paura. Ho sempre bisogno di fare qualcosa, non riesco a starmene seduta a rilassarmi» • «Ha mai incontrato la madre del suo aguzzino? “No, sfortunatamente”. Lo avrebbe voluto? “All’inizio sì, ora però sempre meno” Natascha gira la testa, fa un sospiro profondo e sussurra qualcosa come: “Oh Dio ”. Tutto bene? Vuole fare una pausa? “No, tutto bene. Mi è solo venuta voglia di... di sospirare”» (Hunfeld).
Titoli di coda «Adesso che è tornata a vivere, la normalità che ha desiderato per tanti anni si è realizzata? Natascha si gira con un certo stupore: “È una bellissima domanda”. Per la prima volta la sua voce trema. “Non ha niente in contrario se prendo le mie gocce omeopatiche?”. Niente, ci mancherebbe. “Ci vorrà parecchio tempo prima che io possa definire cosa può essere la normalità per me e poi ci vorrà ancora molto tempo per raggiungerla. Ma una volta raggiunta quella normalità, non so se mi piacerà”. Non è per ricambiare il complimento, Natascha, ma è una bella risposta» (Di Stefano).