21 febbraio 2022
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Biografia di Giuliano Montaldo
Giuliano Montaldo, nato a Genova il 22 febbraio 1930 (92 anni). Regista. Sceneggiatore. Attore. Vincitore, tra l’altro, di due David di Donatello: uno alla carriera (2007), l’altro quale miglior attore non protagonista (2018, per Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni). «I film più belli sono quelli che non sei riuscito a girare davvero, però li hai immaginati proprio come li volevi tu, senza risparmi e senza restrizioni» (a Fulvia Caprara) • «Quando sono nato pesavo 5,2 kg: sulla culla scrissero “Maciste”» (a Giuseppe Fantasia). «Una vita di miracoli. Piccoli e grandi, seri e buffi, come quello della gatta Giulia, che sembrava muta e invece salvò con un potente “miao” la vita di un neonato “molto inquieto. Ero scivolato, finendo sotto le coperte: il miagolio servì ad avvertire mia madre”» (Caprara). «Gli anni della scuola? “Ero in perenne imbarazzo: gli altri si tiravano le palline di carta, io sembravo già un uomo. Marinavo, e quando il preside lo scoprì mi convocò. ‘Hai falsificato il certificato medico: dovrei buttarti fuori da tutte le scuole d’Italia’. Il mio atteggiamento da maschio forte è crollato. Lui: ‘Ti posso venire incontro: l’anno, lo finisci con me, in questa stanza’. Un periodo straordinario, in cui abbiamo parlato di tutto”» (Arianna Finos). «“Prima dell’inizio della guerra, anche io, ovviamente, ero un balilla”. […] “Nel 1940 avevo 10 anni: ricordo le sirene dell’allarme aereo, e a Genova, la mia città, ci sparavano anche dal mare. Dovevamo rifugiarci in una galleria piena di gente, provavamo una grande angoscia soprattutto perché, cessato l’allarme, poteva capitare di trovare fuori solo macerie. Però quell’angoscia mi ha aperto gli occhi”. In che senso? “Non ho mai dimenticato le lacrime dei miei genitori abbracciati, quando, uscendo dal rifugio, videro la nostra casa distrutta. Mio padre si è poi rimboccato le maniche e l’ha ricostruita: mi ha trasmesso quella forza”» (Emilia Costantini). «Tu avevi partecipato alla Resistenza, seppure da ragazzo? “Sì, avevo 15 anni appena compiuti, ero nelle Gap genovesi e, dato che ne dimostravo di più, mi hanno dato anche qualche incarico. Qualcosa ho fatto, ma non mi posso dare delle arie. Anche perché una volta mi è caduta una balilla, sai una di quelle bombe a mano, e mi sono ferito da solo. L’avevo attaccata male alla cintura…”» (Walter Veltroni). «E l’esperienza come critico al quotidiano “Il Lavoro” di Genova? “Ero giovane e presuntuoso. Un giorno, mostrando poco rispetto per un film, scrissi una recensione di una sola riga, che faceva così: ‘Meno male che finisce’. Ad un tratto sentii un urlo feroce alle mie spalle: ‘Chi ha scritto questa roba!?’. Era Sandro Pertini, all’epoca direttore del Lavoro. Me la fece rifare da capo. Anni dopo, consegnandomi un premio nella veste di capo dello Stato, si accostò e mi sussurrò all’orecchio: ‘Ehi, hai poi imparato a scrivere?’”» (Roberta Scorranese). «Cosa la portava sul palco già da ragazzino? “La gigioneria. Nella parrocchia del quartiere c‘era un teatro abbandonato durante la guerra. Ne ho preso possesso e mi sono fatto regista della filodrammatica. Adoravo andare in strada ad attaccare manifesti con scritto ‘Regia di Giuliano Montaldo’. Mi piaceva quel profumo di palcoscenico”. Poi Carlo Lizzani l’ha chiamata per Achtung! Banditi!. “Un signore elegante si presenta sul palco a fine spettacolo: ‘Vorrei farti fare l’attore in un mio film’. Era il suo esordio, non aveva soldi e doveva ingaggiare attori locali. C’era stata una censura preventiva ministeriale. Non volevano che si facessero film sulla Resistenza, e a Genova nacque una cooperativa che coinvolgeva spettatori, operai, impiegati”» (Finos). «Oltre a interpretare il ruolo di un commissario, lo aiutai alla regia. E lì scattò il primo interesse per la macchina da presa. Mi sembrava che il cinema fosse il mio mondo. All’epoca lavoravo al porto di Genova come spedizioniere. Mollai quel posto sicuro e mi trasferii a Roma» (Antonio Gnoli). «“Non fu semplice. […] I soldi erano pochi, e se volevo viaggiare, trasferirmi a Roma, sapevo che non potevo pesare sui miei. Quel po’ che guadagnai con il film di Lizzani, insieme a 35 mila lire che mi prestò mia sorella Ines, fu investito per il mio sbarco nella capitale”. Che anno era? “Arrivai a Roma alla fine del 1950”» (Gnoli). «Andai incontro a difficoltà economiche, ma non mi scoraggiai. Il primo anno romano in pratica mangiavo solo supplì». «“La città brulicava di pellegrini. Pensavo a mia madre che voleva che mi facessi prete. Ma la città, al di là della patina di sacro, era un luogo di tentazioni continue. Passavo da una pensione all’altra. Ma costavano troppo. Alla fine, Lizzani mi suggerì di rivolgermi a una signora che affittava le camere. ‘Giulià, se sei carino con lei, quella te fa dormì gratis’, disse, strizzando l’occhio”. Andò? “Andai. Era alta un metro e trenta. Cattivissima e arrapatissima. Dovetti scappare di notte, dopo un assedio durato qualche giorno. Finii nell’appartamento di Gillo Pontecorvo. Un porto di mare. Intanto, Lizzani mi chiamò per interpretare Cronache di poveri amanti. Mi attaccai a lui perché volevo capire com’era il mestiere di regista. Fu molto generoso. E, quando Gillo cominciò a girare i suoi film, mi prese prima come segretario di edizione e poi aiuto regista». «Una volta Fellini mi disse: “Carissimo, vieni, ché ti faccio fare l’aiuto regista”. Mi presentai, ma di aiuto regista ce n’erano venti. Stessa cosa un mese dopo. Alla fine lo incontrai in via Veneto, e gli dissi: “Federico, ho appena firmato un contratto che mi vieta di lavorare con te”. Che adorabile mentitore che era Fellini». Nel 1961 l’esordio alla regia, con Tiro al piccione. «Un disastro. La storia, tratta da un’autobiografia, di un giovane che, dopo la morte del padre fascista in guerra nel ’43, decide di arruolarsi, per poi capire di essere dalla parte sbagliata. Il film non piacque né a destra e né a sinistra: spararono tutti, e io ero il piccione. Tullio Kezich ed Ermanno Olmi, che non conoscevo, mi chiamarono da Milano: “Non mollare”». «“Volevo mollare tutto, tornare nella mia Genova. Basta, basta con il cinema. E invece…”. E invece? “Invece un produttore mi chiamò nel suo ufficio. Ma ciò che vidi nel suo ufficio non fu lui: fu una creatura splendida, elegante, lo sguardo intenso, il sorriso intelligente. Di nome Vera. Il produttore, Leo Pescarolo, mi richiamò all’ordine: ‘Lei è mia sorella, lavora con me’. Me lo disse con aria intimidatoria, come per dire ‘lascia perdere’. Poi aggiunse: ‘Vorrei offrirle la regia di un film’. Quel giorno non lo dimenticherò mai. In un minuto, una proposta di lavoro e un colpo al cuore”. Come catturò l’attenzione di Vera? In fondo lei era un giovane regista squattrinato. “Vera era figlia dell’attrice Vera Vergani, una leggenda del teatro, e di un ufficiale navale sui transatlantici. Riuscii a presentarmi a casa loro praticamente a sorpresa. Vera passò a offrirmi il dolce: ‘Ti va un pezzo di torta?’. Io la guardai negli occhi, e le risposi: ‘Io – ti – amo!’. La frase cadde in un momento di silenzio della tavolata. Imbarazzo totale di tutti, tranne che di Vera, che rispose: ‘Sì, ma che c’entra con il dolce?’”» (Giovanni Bogani). «La tirava un po’ per le lunghe, e poi era impegnata nel suo lavoro su vari set, e oltretutto era stata sposata e da quel matrimonio aveva avuto una figlia, Elisabetta. Insomma, capivo la situazione: la resistenza, i dubbi. Ma non mollavo, e alla fine ce l’abbiamo fatta, a metterci insieme». «“Con Vera Pescarolo è arrivato il mio coraggio, la mia forza, la mia fortuna. Tiro al piccione con il pubblico era andato bene, Vera e Leo produssero il secondo, Una bella grinta, con un solo attore famoso, Renato Salvatori. Premi al Festival di Berlino e quello del Senato, importante perché erano tanti soldi, quasi il costo del film. […] Col pubblico andò male, altro momento di sbandamento. Arrivò l’offerta di un produttore, ‘ma basta con i drammi’. Mi offrì un film in Sudamerica, Ad ogni costo”. Con Klaus Kinski. “Bravo, ma un rompiscatole terrificante. Ne combinò una che non scorderò mai. Finisce la scena, va dal capo macchinista: ‘Fai flic floc con me? Dammi il dito’. Quello non capisce, glielo dà, e lui, ‘tac’, glielo rompe. Ho dovuto farlo scortare, perché il macchinista ogni giorno mi diceva ‘L’ultimo giorno di set, dotto’, mi devo vendicare’. Fu un successo: gli americani mi offrirono Gli intoccabili”. […] Tumultuoso il rapporto con Cassavetes. “La prima settimana, sì. Metteva bocca su tutto: ‘Hai cambiato obiettivo? Quale hai messo? Perché il carrello?’. A un certo punto l’ho messo spalle al muro: ha bofonchiato qualche scusa. Il giorno dopo, busso alla roulotte: ‘Sono io che lascio il film’. Salta giù e mi abbraccia. Siamo diventati amici”. Nei Settanta è arrivato Dio è con noi. “Storia vera che Andrea Barbato lesse sul Der Spiegel: due ragazzi buttano la divisa tedesca, finiscono in un ex lager trasformato in campo di prigionia canadese. I tedeschi li vogliono processare come disertori: verranno fucilati dai tedeschi con i fucili dei canadesi nel quinto giorno di pace. Un film troppo duro da digerire per il pubblico”. Sacco e Vanzetti ha avuto un pubblico mondiale. “In Italia molti non sapevano chi fossero: con il fascismo in corso si era parlato poco delle manifestazioni per Nick e Bart. Un produttore mi chiese: ‘È il nome di una ditta di import-export?’”» (Finos). «Con Ennio Morricone pensammo alla colonna sonora: lui voleva una ballata, e l’unica che poteva eseguirla era Joan Baez. Sapevamo che era amica di Furio Colombo. Le mandammo attraverso di lui la sceneggiatura, e lei mi telefonò il mattino seguente, dicendomi: “Ci sto!”. Grazie al nostro film, gli studenti di diritto di Boston ricostruirono il processo in tempo reale, e dopo sette anni il governatore Michael Dukakis riabilitò i due italiani nel corso di una cerimonia cui fui invitato» (a Barbara Palombelli). «Giordano Bruno, altra storia di intolleranza. “Una sera Vera e io, in Campo de’ Fiori a Roma, ascoltiamo un professore che spiega agli studenti, sotto la statua, chi è Giordano Bruno. È scattata la scintilla. Volonté era meraviglioso e ossessionato. Nella notte, non so come, entra nella nostra stanza d’albergo urlando: ‘Ma come fate a dormire, ché domani me bruciano vivo?’. Si infilò nel lettone e dormì tra me e Vera”. […] L’Agnese va a morire? “Film sulle staffette partigiane, fatto con pochi soldi e l’appoggio della gente di Romagna, che ci ha dato vestiti, biciclette, spesso pranzi e cene. Gli attori sono venuti solo con la diaria: Placido, Satta Flores, Bucci”. Il giocattolo. “Un film sparito, mi spiace. Manfredi era stupendo, Arnoldo Foà e Vittorio Mezzogiorno bravissimi. Mi chiamavano ‘il martello di Genova’, ero implacabile. Ma tutte le sere stappavamo il vino ed era una festa”» (Finos). Grande successo ebbe nei primi anni Ottanta la miniserie televisiva Marco Polo. «Io e Vera siamo rimasti lontano da casa due anni. Siamo andati a girare in Mongolia quando lì ci si spostava con grande difficoltà da un posto all’altro. Che cosa abbiamo fatto per la maggior parte del tempo? Abbiamo aspettato. L’allestimento dei set, l’arrivo dei costumi, delle comparse, di tutto». Molto acclamato anche il film Gli occhiali d’oro (1987), ispirato all’omonimo romanzo di Giorgio Bassani. «“Lo amo molto. In sala alla Mostra di Venezia mi ritrovai accanto all’autore del libro. Avevo aggiunto nel film racconti dei suoi amici, la scuola che avevano organizzato al ghetto: temevo che, riaccese le luci, mi ‘sgridasse’ davanti a tutti. Invece si commosse: ‘Se dovessi riscrivere il libro, lo farei così’”. Tempo di uccidere, con Nicolas Cage. “Un sogno infranto. Dovevamo girarlo in Etiopia, ma l’ambasciatore ci vietò le riprese: c’era una guerriglia. In Kenya i prezzi erano insostenibili. Finiamo nello Zimbabwe, che non c‘entrava nulla. I contratti erano firmati: ho dovuto farlo”» (Finos). «Andò tutto storto: i luoghi dove girare, gli attori, il senso di frustrazione. […] E la cosa mi gettò in un malumore talmente forte da farmi decidere che per anni non avrei più girato un film» (Gnoli). Dal 1999 al 2003 Montaldo «è stato responsabile di Rai Cinema, e ha contribuito a realizzare i film di Soldini Pane e tulipani e Giordana I cento passi. “Dire dei sì è facile, sono i no che sono dolorosi”» (Antonello Catacchio). Solo nel 2008, ben diciannove anni dopo Tempo di uccidere, tornò nelle sale cinematografiche con I demonî di San Pietroburgo, incentrato su Fëdor Dostoevskij e «girato a Torino e a San Pietroburgo. A Torino ho girato anche L‘industriale, con Carolina Crescentini e Pierfrancesco Favino, attori con la ‘a’ maiuscola. L’idea del film venne a Vera mentre tornavamo da una vacanza d’amore a Venezia. In autostrada vediamo fabbriche chiuse, operai intorno. La mia adorata sposa propone un film sulla crisi. Aveva ragione». L’ultimo impegno cinematografico risale al 2017, quando «ho avuto il regalo di interpretare, come attore, il film di Francesco Bruni Tutto quello che vuoi, che mi ha regalato anche un David come interprete. Ho scritto la storia della mia vita [prima, con Caterina Taricano, in Un marziano genovese a Roma, Felici 2013, poi in Un grande amore, La nave di Teseo 2021, dedicato alla moglie – ndr]. E ora abbassiamo la saracinesca. Vera mi ha detto: “Sì, ma se dovessero proporci un racconto emozionante…”. Io le ho risposto: “Non credo. E poi la mia grande emozione è stare con te”» • «Vera Pescarolo è una presenza allegra, delicata, un viso ancora bellissimo. Come si fa a stare assieme per tanto tempo, Montaldo? “Recitiamo l’uno per l’altra. Per esempio, io faccio la sua imitazione e lei finge di arrabbiarsi ma poi si mette a ridere. Ogni giorno invento un nuovo scherzo da farle. Stare insieme è anche questo: una sceneggiatura da scrivere con lei”» (Scorranese). «Non sarei stato niente senza di lei. Lo dico nella consapevolezza che, per ogni cosa che ho fatto, ogni decisione presa, la sua presenza è stata imprescindibile». «È la mia ragazza, e la vedo come fosse sempre la prima volta». «“Sul lavoro il capo è lui, ma nella vita comando io”, ride Vera Pescarolo» (Flavia Amabile). «La loro storia, l’ha raccontata Fabrizio Corallo in un documentario, Vera & Giuliano. […] Aneddoti, ricordi, storie meravigliose di viaggi e di film» (Elena Stancanelli) • «Un comunista, Montaldo, ma senza tessera, e ci tiene a dirlo. […] “Credo che la libertà sia anche quella di avere delle idee senza mettersi le manette. A questo proposito Cesare Zavattini una volta mi disse: ‘Non iscriverti mai a nulla, perché hai il diritto di cambiare il tuo pensiero’. Io, il mio pensiero, non l’ho mai cambiato, ma l’idea di poterlo fare mi ha sempre aiutato a rimanere fedele”» (Cristina Piccino) • Ha definito Genova «la mia città, il luogo in cui sono nato e che continuo ad amare, anche se da molto tempo vivo a Roma. Ma forse proprio per questo, perché sono lontano, l’amore che provo per Genova è ancora più forte» (ad Andrea Plebe) • «Come sei diventato tifoso del Genoa? “Avevo otto anni quando mio zio, un tipo all’antica con un bastoncino con la testa di avorio, mi portò la prima volta allo stadio. Era sempre elegantissimo, un genoano sfegatato. Andammo a Marassi. Il Genoa perde, e mio zio comincia a litigare: se ne va e mi dimentica allo stadio. Allora non c’erano i telefonini… Poi eravamo dei soldatini, in quel tempo, all’età di otto anni. Restai immobile lì. Ero smarrito e mi stavo congelando. Si stava svuotando lo stadio, quando arrivarono due inservienti della società e con la bandiera del Genoa mi protessero dal freddo. Avvolto in quel drappo rossoblù sono sopravvissuto all’abbandono. Potrei tifare per altro?”» (Veltroni) • Ha paura dell’aereo. «Una volta, tra Manila e Hong Kong, si spezzò un’ala nell’atterraggio, e prima di fermarsi l’aereo fece una serie di sconvolgenti piroette. Un uomo morì a bordo. Quando proprio non potevo farne a meno, su quelle scatolacce di metallo salivo. Ma prima affidavo regolarmente l’anima a Dio» (a Malcom Pagani) • «Qual è il film più importante della tua vita come spettatore? “Devo tornare al neorealismo. Ladri di biciclette. E Roma città aperta”» (Veltroni) • «Chi ti manca di più delle persone con le quali hai lavorato? “Carlo Lizzani, naturalmente. E poi Ettore Scola”» (Veltroni) • «Ci sono registi eccellenti. Come Paolo Sorrentino e Matteo Garrone. Personalmente ho un debole per Nanni Moretti, che considero il più sorprendente tra quelli che amo» • «Non riguardo mai i miei film. Se rivedessi un mio film coglierei solo i difetti, o tutto ciò che, per condizioni avverse, non si è potuto realizzare». «Nella tua lunga carriera non hai girato molti film. “Perché a me piace scegliere piuttosto che essere scelto. Ho sempre amato fare dei film dove il tema dell’intolleranza e dell’ingiustizia risultassero il vero centro della storia”» (Gnoli). «“Un film su Allende è uno dei miei due sogni mai realizzati”. Qual è l’altro? “Avrei voluto fare un film sul rogo del Reichstag. Ma poi cadde il Muro di Berlino, e il mondo cambiò”» (Scorranese) • «Quella del regista non è stata una vita facile, ma non la cambierei con nessun altro mestiere» • «L’età è un dato oggettivo, ma la combatto. Se non mi ricordo il nome di una persona incontrata per strada, a costo di scervellarmi fino alle 3 di notte, non vado a dormire fino a quando non ho risolto l’enigma. È uno sforzo che i vecchi devono compiere». «Invecchiare è assistere al proprio cedimento. Questo mi provoca un po’ d’ansia. Eppure, da un po’ di tempo, sento crescere in me una specie di tranquilla sicurezza. Non vorrei che fosse una forma di rincoglionimento». «Montaldo, di che cosa ha maggiormente paura oggi? “Di dimenticare le cose che ho vissuto. Oggi rivivo i ricordi proprio come se ogni giorno girassi un film solo per me”» (Scorranese) • «Se penso che il destino mi aveva riservato un posto da facchino al porto di Genova, se mi passa la licenza, direi che ho avuto un gran culo».