24 febbraio 2022
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Biografia di Aldo Busi
Aldo Busi, nato a Montichiari (Brescia) il 25 febbraio 1948 (74 anni). Scrittore. Traduttore. «Non ho limiti se non il senso della letteratura, cioè della forma» (a Maurizio Bono) • «Io nasco respinto. Mio padre non mi voleva, mia madre desiderava una femmina. Io nasco e già avevo un completino rosa» (ad Antonio Gnoli). «Figlio di un oste di campagna. […] “Ci menava sempre, tutti, me in particolare perché mi ribellavo: eravamo le sue bestie, lui il domatore. Era un povero che odiava i poveri, un ex fascista che mia madre salvò da morte perché a quel tempo allattava il figlio di uno dei capi della Resistenza. I suoi punti fissi erano Andreotti e Montanelli: non poteva che menare me, omosessuale e comunista”» (Isabella Bossi Fedrigotti). «Io sono sempre stato una celebrità. […] A tre anni e mezzo ero in ospedale per otite o chissà, e da solo scavalcai il cancello e me ne tornai a casa. Se ne parlò per giorni, in paese. Ne avevo sette o otto e percorrevo il tratto dalla tabaccaia al sagrato danzando sulle punte, in odio a chi andava in chiesa. Ero già scandaloso» (a Natalia Aspesi). «Ha iniziato a lavorare presto. “A cinque anni avevo il compito di occuparmi dei conigli, il che significava prendere il sacco e andare a rubare il trifoglio. Se mi beccavano mi picchiavano con verghe d’ulivo lunghe, flessibili, taglienti. Eravamo circondati da signorotti, i reggenti del paese, tutti di matrice cattolica. Credo che la mia avversione per i preti sia nata allora”» (Marianna Aprile). «I miei genitori parlavano solo in bresciano, un dialetto militaresco, secco, aspro, e le uniche parole esatte erano quelle agricole: secchio, aratro, farina, cova, scaldina, monaca… Il resto non esisteva, l’italiano era la lingua dei “siori”. Non mi chiamavano “Aldo”, ma “te”, perché il nome ti avrebbe dato un’identità che era al di là delle tue pertinenze. Tutt’al più mio fratello era il Barba e io il Barbino, perché avevamo i capelli ricci dei capretti. Io vengo da una lingua sofferta, che non trasmetteva sentimenti. I sentimenti mediani venivano comunicati a gesti e sguardi, e questo scatenava una fantasia linguistica inconscia» (a Paolo Di Stefano). «La mia lingua madre è il dialetto bresciano, per me è l’italiano la prima lingua straniera appresa. A trent’anni, avendo anche la madre veneta, non sapevo la differenza tra copia con una “p” e coppia con due “p”. Facevo di quelle toppe tremende. Ma ho cominciato a scrivere professionalmente a sette anni. In terza elementare i miei temi facevano il giro del paese. Citavo le bestemmie, sempre però fra virgolette, quindi non erano attribuibili all’autore. Ero considerato tremendo e quindi affascinante. E scoppiavano certi casini tra provveditorato, curia e caserma…» (a Francesco Borgonovo). «“A casa non trovavo niente da leggere, soltanto il lunario dei santi, ma cercavo fuori. A 8 anni scoprii una famiglia che aveva il dizionario Melzi, due volumi rilegati in rosso che lessi con devozione voce per voce, dalla A alla Zeta. Più tardi, quando aiutavo nell’osteria di mio padre, conobbi un ex carcerato che leggeva: andavo la sera da lui con una sporta che riempivo di Moravia, Pavese, Waugh, Maugham. Io volevo studiare, volevo andare al ginnasio. Ricordo come gridai a mio padre, l’ultimo giorno delle iscrizioni: “Pezzo di merda, lazzarone, disgraziato”. […] A 13 anni mi ha caricato sulla sua Lambretta e mi ha portato a fare lo sguattero in un albergo sul Garda». «Sono stato portato da mio padre a Maderno, sul lago di Garda, a fare la prima stagione in albergo, lavorando 15 ore al giorno. Lui ritirava i soldi a fine mese da una proprietaria crudelissima. Mangiavo solo stracchino e brodaglia, rubavo uva americana dalla vigna e per saziarmi la deglutivo anche se acerba». «Fino a quando sono diventato famoso ho vissuto come un maledetto, una specie di François Villon, in giro senza una lira, con tutti i mestieri immaginabili, ma sempre con la mania della scrittura. A 15 anni andavo per le fiere a declamare Orazio a memoria…». «“Quel che ricordo nitidamente dell’infanzia e giovinezza sono la mia esaltazione psichica ed erotica, la rabbia, l’odio, il desiderio di vendetta. Li ho dentro ancora, intatti. Se penso al passato, sento solo salire un fuoco dallo stomaco che morirà con me”. A 14 anni se ne era andato di casa, tutto pesto, con la licenza media e già esperienza di cameriere e sguattero e una valigetta di latta con fogli scritti e da scrivere, il tesoro che lo accompagnerà in un giro forsennato per campare, scappare, osservare, fare sesso ovunque sfrenatamente, vivere. […] Abitava in via Bigli [a Milano – ndr], in una soffitta traballante con branda e centinaia di scarafaggi, faceva il cameriere di trottoir, portando veloce vassoi e tazze in mezzo al traffico, a parrucchieri, case di moda, uffici, “e le commesse volevano solo me, prima che rispondessi male ai fratelli parrucchieri allora di grido, molto villani”» (Aspesi). Fu in quel periodo che offerse una delle sue prime prove a Piero Bertolucci, uno dei cofondatori dell’Adelphi, che molti anni dopo raccontò così il loro primo incontro: «“Io ho scritto un romanzo”. Alzai gli occhi dalla scrivania e vidi davanti a me il ragazzo del bar Pinguino, in via Verri, dove noi dell’Adelphi andavamo a prendere il caffè tutti i giorni verso le undici. Alto, coi capelli neri ricciuti, poteva avere diciassette anni. […] Il colore del viso era identico a quello del residuo di Campari che tingeva i bicchieri. Con la destra mi porgeva un dattiloscritto enorme. Il riflesso automatico di chiusura cortese e guardinga […] quella volta non scattò. Lo stupore era stato più forte, anche per il titolo, credo, Il monoclino, e per la mole: saranno state almeno cinquecento pagine fitte. […] Lo lessi quasi tutto, eroicamente (ero abbastanza giovane anch’io, allora), stupefatto di trovarmi davanti ogni tanto, nella farragine indescrivibile di quella colata di parole, una pagina perfetta, magistrale. […] Gli dissi che nessun editore avrebbe mai pubblicato una mostruosità simile, ma che Busi Aldo (così erano ogni tanto firmate le pagine, con relativa data: anno – il 1965, per lo più –, mese, giorno, ora e minuti) era di sicuro uno scrittore. […] Mi chiese consiglio: io gli dissi che in Italia l’abisso tra il barismo e il mondo delle lettere è da quest’ultimo considerato incolmabile, e che la parola “autodidatta” è un insulto mortale. Mi sembrava quindi opportuno che creasse una distanza almeno geografica tra passato e futuro e che, non essendo Montichiari, indubitabilmente, un luogo di provenienza abbastanza esotico, andasse all’estero, imparasse le lingue, facesse se possibile studi “regolari” e tornasse trionfalmente sulla scena. Sparì, e dopo qualche mese mi telefonò baldanzoso da Parigi, poi da Londra, poi da Berlino». «Restava disoccupato, cercava altri incontri, prendeva il treno, solo o con qualche compagno incontrato a caso: e andava a fare lo sguattero, ma anche il ballerino di fila, oppure l’operaio, il contabile, il fattorino, il ragazzo au pair, a Venezia o a Sirmione, a Lille o a Parigi, a Londra, a Monaco di Baviera, a Berlino, a Cortina: “Dormivo spesso sulle panchine o sotto i ponti. A Cortina mi salvò la vita una signora che nel gelo della notte mi buttò addosso una coperta: del resto, proprio lì lavando piatti tutto il giorno in acqua gelata mi ritrovai paralizzato e muto. In Francia le vecchie si innamoravano di me: una castellana bella, colta e femminile voleva a tutti i costi sposarmi, mi sarei sistemato, ma io marchette non ne ho mai fatte, neppure per fame. Piuttosto andavo ai giardinetti e mi facevo dare dai bambini la loro merendina. E poi per principio non andavo con le donne: allora la sodomia non era di moda”. Con gli uomini sì, umanamente spaventosi, “come un gioielliere di Valenza, miliardario, che mi invitava nella garçonnière di Milano e poi mi offriva una pizza. Dopo l’hanno rovinato i gigolò”. Di notte leggeva, studiava, scriveva: “Alla Siemens di Monaco facevo il magazziniere e raccoglievo l’immondizia, mi davano due ore di libertà e io mi chiudevo nel cesso a studiare: la mia cultura nasce dagli odori delle deiezioni”. Così Busi ha imparato perfettamente inglese, francese, tedesco» (Aspesi). «Nella mia gioventù sono stato in Francia, in Inghilterra, in Germania, in Spagna, ma non ho imparato nessuna di queste lingue a livello di lingua madre, perché ero concentrato nell’apprendere l’italiano». «Finalmente, a 28 anni prende a Firenze il diploma di puericultrice, e nell’81, a 33, si laurea a Verona in lingue e letterature straniere con una tesi sul poeta americano John Ashbery» (Aspesi). «Ogni tanto tornava, portandomi una nuova versione del Monoclino, che io gli restituivo diligentemente. I nostri contatti si diradarono, poi, dopo circa dieci anni, me ne consegnò un’ultima redazione, dicendomi che aveva bruciato tutto quello che aveva scritto fino allora – racconti, poesie, lettere: tutto – con quella sola eccezione, che era anche in unica copia. Ci rimasi malissimo, e gli risposi che, fin quando non gli fossero passate quelle tentazioni da Eratostene, non gliel’avrei più restituita. Negli anni che seguirono non se ne fece più parola, finché un giorno di giugno dell’83 venne a casa mia e mi chiese il dattiloscritto “per dargli un’occhiata durante l’estate”. In autunno me lo riportò del tutto cambiato: Il monoclino era finalmente diventato Seminario sulla gioventù, e l’Adelphi lo pubblicò l’anno successivo» (Bertolucci). «“Per Seminario sulla gioventù Calasso mi diede un anticipo di 800 mila lire, un furto: quel primo romanzo l’avevo cominciato a 14 anni e riscritto 14 volte bruciando a poco a poco tutte le stesure, perché sono un piromane. Una settimana dopo portai all’editore, finito, Vita standard di un venditore provvisorio di collant, ed ero già alla fine del terzo e a metà del quarto romanzo”. Il secondo, se lo prese Mondadori, pagando finalmente un bel po’ di milioni» (Aspesi). «Si è imposto all’attenzione della critica nel 1984 con Seminario sulla gioventù (Adelphi), un crudo reportage sui dolori della sua generazione. Del romanzo, Busi ebbe a scrivere: “È un capolavoro: invidio gli italiani che non l’hanno ancora letto”» (Laura Laurenzi). «Il protagonista, Barbino, si lascia alle spalle l’infanzia trascorsa nella campagna bresciana e si rifugia nelle luci parigine, in un caffè milanese, nella pioggia di Londra, fuggendo da ogni luogo dopo il primo assaggio. Il romanzo […] ebbe un immediato successo» (Elena Asquini). «Il successivo Vita standard di un venditore provvisorio di collant (1985, Mondadori) è una satira malinconica sulla parabola del potere. Nel 1987 è uscito La delfina bizantina (Mondadori), a proposito del quale l’autore ha detto: “L’87 sarà ricordato come l’anno della Delfina: non c’è altro da attendersi né sul piano politico né tanto meno letterario”. Dell’88 è Sodomie in corpo 11, […] provocatorio romanzo (Mondadori)» (Laurenzi). Seguirono, tra alterne fortune, altri romanzi – Vendita galline km 2 (Mondadori, 1993), Suicidi dovuti (Frassinelli, 1996), Casanova di se stessi (Mondadori, 2000) ed El especialista de Barcelona (Dalai, 2012) –, alternati a prose di viaggio – Altri abusi (Leonardo, 1989), Cazzi e canguri (Frassinelli, 1994), E io, che ho le rose fiorite anche d’inverno? (Mondadori, 2004) – e ad altri testi di varia natura – Manuale del perfetto gentilomo (Sperling & Kupfer, 1992), Manuale della perfetta gentildonna (Sperling & Kupfer, 1994), La signorina Gentilin dell’omonima cartoleria (Mondadori, 2002), Aaa! (Bompiani, 2010), Vacche amiche (Marsilio, 2015), Le consapevolezze ultime (Einaudi, 2018) –, nonché a numerose traduzioni (tra gli altri, Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll, I dolori del giovane Werther di Johann Wolfgang von Goethe, Intrigo e amore di Friedrich Schiller, e persino il Decameron di Giovanni Boccaccio liberamente volto in italiano moderno). Da ultimo si è avuta notizia di un nuovo romanzo, «Seminario sul postmortem (iniziato nel 2010 e terminato nell’autunno del 2020, con un incessante lavoro di limatura che continua tuttora), […] destinato a rimanere natura morta, stampato in ottocentocinquanta pagine circa ordinatamente impilate su un tavolo da lavoro, e in versione digitale in un file archiviato, dice Busi, sotto la dicitura “Romanzo senza neppure i posteri”. Lui di certo non lo propone a nessuno: ha fatto qualche pseudo tentativo-trabocchetto, dice di essersi imbattuto in sconosciuti tipografi/editor “curiosi, ridicoli, ignorantissimi e vili che se la tirano per dèi perché misteriosi”. Resta semmai scandalizzato, ma appena appena, che nessun editore glielo abbia ancora chiesto, e racconta di essere rimasto basito quando, convocando i suoi eredi a casa per consegnare loro il manoscritto da pubblicare postumo, si è sentito rispondere: “Grazie, zio, ma non lo vogliamo”» (Paolo Landi) • «Lui stesso lo ha rivelato: i suoi libri non vendono, e nessuno è in grado di imporli, se non di proporli. […] Busi, in tv, c’è andato, e parecchio. Ma questo, nel lungo periodo, non ha fatto impennare le sue vendite, anzi» (Paolo Bianchi) • «A Busi piace descriversi come una persona sola. Dice di non avere amici, di non aver mai avuto amori, di non aver più amanti. Si definisce un egoista a cui non interessa il piacere altrui. E questa solitudine fieramente sbandierata l’ha battezzata “solitarietà”, la capacità di star da solo senza sentirsi solo» (Aprile). «“Ho praticamente smesso di fare sesso. Sono un omosessuale ideologico”. […] Lei ha amato? “Ho cercato la merla bianca. Ma avevo già la mia opera e me stesso”» (Gnoli) • «A partire dalla mia prima opera […] il mio anticlericalismo è sempre stato integro, retto e coerente. Non c’è mai stato un cedimento. Occhio per occhio, dente per dente» • «Sono le chiese il nemico per Busi. Le religioni, non necessariamente la trascendenza (“vede, quella è una cosa privata, in cui non ha molto senso sindacare”). Il comunismo è stata una delle due chiese del Paese nel secondo Novecento (“il prosieguo del fascismo democristiano, si sa, non è stato tanto il berlusconismo quanto il cattocomunismo”)» (Nicola Lagioia). «Io sono di sinistra. E visceralmente antifascista. E anticomunista, ci mancherebbe» • «La vita stessa ormai mi sembra tutto tempo rubato al sonno». «Io non sono un uomo felice, e allora qualche volta mi verrebbe da non fare neanche le visite mediche. Assecondare l’ineluttabile…». «Sono troppo spiritoso per suicidarmi» • «Il nostro più grande scrittore vivente» (Massimiliano Parente). «Il suo stile è una zona di rispetto, un braccio teso oltre il quale non è dato accostarsi» (Daniele Giglioli). «Un grande scrittore che scrive brutti libri» (Angelo Guglielmi). «Se Aldo Busi non fosse diventato Aldo Busi, avremmo oggi nella letteratura italiana alcuni capolavori in più. […] Almeno dalla Delfina bizantina in avanti – il suo terzo romanzo, vero e proprio spartiacque dal Busi promessa al Busi delusione – la grandezza dello scrittore bresciano si è infatti dissolta insieme al proliferare del suo manierismo e dell’autoincensamento che lo ha promosso» (Marco Alloni) • «Un’opera deve essere a filo del presente, sempre contemporanea di se stessa. Io riscrivo molto, ma non nel senso che aggiungo chissà che, per il solo fine di riscrivere e rimpinguare la foliazione o emendare delle pecche. Nelle mie opere ci sono punti di arresto, spie e indizi che ho disseminato e dai quali riparto, per continuare a lavorare quando mi sentirò emotivamente pronto o certe persone ispiratrici di personaggi avranno finalmente tirato gli ultimi» (a Marco Dotti) • «Uno scrittore vero non è mai autobiografico nemmeno quando lo è» • «La lingua è diventata solo comunicazione. È caduto il senso estetico della lingua italiana, e in generale della lingua usata come sistemazione delle idee» • «Non sono un populista. Quindi penso che il dovere dell’opera sia di restare ferma dov’è. Sono gli altri che devono andarle incontro. Il romanzo che va verso il pubblico non è più un’opera, al più è un operetta. […] Da sempre detesto la figura dell’intellettuale organico. Che cos’è: un suggeritore, un imbonitore, un servo? Sono disorganico a tutto». «Io sono un’ammiraglia dagli interni spartani, l’editoria di oggi è abituata a canotti foderati in pelle e lo sciampagnino cinese del cumenda» • «L’Italia che cosa se ne fa, di uno scrittore come me? Niente. Non mi merita. Farebbe di me lo zimbello su cui gettare fango. Ma è un problema loro, non mio. Se mi chiedi se sono meglio di Philip Roth, io ti rispondo di sì, anche di Joseph. Di Nabokov? Sì. Mi sento paritario a Omero, Boccaccio, Ovidio, Catullo. Noi siamo gli scrittori!». «Io quando scrivo romanzi sono Mosè che scolpisce sulle tavole. Mai fatto concessioni al lettore» • «Non le viene qualche volta il dubbio di dire minchiate? “Senta, caro amico: io dico solo cose sensate, intelligenti. Non posso permettermi le stupidaggini. Se dicessi una minchiata vorrebbe dire che prima ci avrei riflettuto. E dunque quella non sarebbe una minchiata, ma una super-minchiata. Una cosa memorabile”» (Antonello Caporale) • «Di sé lei ha scritto in uno dei racconti: sono un ex cameriere con il complesso di superiorità. “È vero. Ho avuto la fortuna di non essere figlio di papà, di non studiare nelle scuole di Stato. Tutti quelli che erano handicap insormontabili, li ho trasformati in grotte di Aladino piene di tesori. E poi, se uno non ha fatto il cameriere e non ha visto la vita dal basso, o dal sotto di una tovaglia, non può aspirare al trono”» (Gnoli). «Io nella mia vita ho solo scritto: non ho storie d’amore, matrimoni, figli, detriti esistenzialistici. Pur di scrivere mi sono ridotto a vivere, nel senso che se non vivo non ho materiali per la scrittura». «Aldo Busi… Aldo Busi è un ente molto astratto per me prima di ogni altro. E poi a me Aldo Busi ha portato solo male, disgrazia, emarginazione. E poi soprattutto mancanza d’amore, perché tanto amabile non è neppure con me».