La Stampa, 9 marzo 2022
Una lettera a Virginia Woolf di Donatella Dipietrantonio
Cara Virginia,
Ti scrivo per raccontarti un errore e un ritardo, quanto gravi non so.
Ti ho incontrata da ragazza – io la ragazza – ancora tutta impastata del mio luogo di nascita. Non ti ho ri¬conosciuta. Mi sono fermata alle prime venti o trenta pagine di La signora Dalloway.
In quegli anni l’origine contadina era ancora un vincolo che mi impediva l’accesso ad altri mondi. La terra dov’ero mi divorava, possessiva e feroce. Leggevo con tutta la passione, ma senza mai spostarmi davvero da lì. Un posto piccolo e isolato, rimasto antico, in una bolla del tempo che non riusciva a scoppiare e aprirsi alle lontananze.
Ero avvinta da Ignazio Silone e Grazia Deledda, così diversi e così simili nell’appartenere con la stessa forza a un paesaggio fisico e umano. Al primo mi legava una prossimità geografica e lo strato sociale dei suoi personaggi, identico al mio. Fontamara poteva essere il romanzo della mia famiglia, Berardo Viola era il mio eroe, avrei voluto averlo come nonno o come zio, almeno. Con Grazia Deledda tentavo di aprirmi a un altrove che però finiva per non discostarsi troppo dai miei luoghi: in fondo anche l’Abruzzo è un’isola, anche se il mare lo bagna da una parte sola.
Virginia cara, non ero pronta a entrare nei tuoi ambienti, nei tuoi personaggi. Non ti ho capita, anzi ho avuto la presunzione di ritenerti sopravvalutata. Ho restituito La signora Dalloway all’amica – quella dalle letture più eccentriche – che me lo aveva prestato in un’estate afosa tra un anno e l’altro del liceo. Non avevo molto tempo per leggere, dovevo aiutare i miei nei lavori dei campi. Con la falce mi spingevo a mietere le spighe mature sul bordo di un fosso e nei crepacci, dove non potevano arrivare i mezzi meccanici. Della grazia di Dio non si spreca niente, diceva mio nonno, che non era Berardo Viola, ma solo Pasquale Di Pietrantonio, detto Pasquale di Ruscichitte.
Come avrei potuto comprendere l’uscita mattutina della signora Dalloway alla ricerca dei fiori che avrebbero adornato la sua casa per la festa della sera? I piselli odorosi che lei teneva tra le braccia, mentre per me i papaveri – pur così belli e di seta – erano erbe infestanti tra il grano che mi pizzicava la pelle? La trovavo così frivola, la tua protagonista, e così lunga e noiosa quella scena per strada, con il traffico bloccato dalla macchina che portava una misteriosa celebrità, forse addirittura la Regina.
Ero limitata da un rozzo pregiudizio di classe. Non potevo averne consapevolezza, ma mi intorbidava il pensiero: i ricchi non hanno diritto al dolore. Era tra le peggiori eredità che gli avi contadini e pastori – oltre a un ramo di briganti che pare avessero infestato le selve dell’Appennino abruzzese – mi avevano lasciato. Sarebbe stato necessario un lungo pezzo di vita per rinunciarci, e ancora adesso devo combatterne a volte qualche residuo.
E poi mi sentivo respinta dal tuo ritratto che avevo trovato alla voce «Gran Bretagna – Letteratura» nell’enciclopedia comprata a rate dai miei genitori: i tuoi occhi, il profilo di tre quarti, tra l’altero e il sofferente, appunto, il disegno della bocca. Forse mi spaventavi, per un fondo di disperazione che credevo di scorgerti nello sguardo e mi riportava al mio, già così difficile da tenere a bada.
Insomma, mi sono fermata alla superficie, quella volta: le pagine introduttive di un solo romanzo, una singola immagine dell’autrice. A diciassette anni non possedevo la chiave per entrare nella «piccola stanza» in cui la tua Clarissa si sarebbe ritirata nel bel mezzo del party. Ti ho impedito di conquistarmi, non potevo ancora permettermelo. La signora Dalloway è stato uno dei pochi libri che mi hanno richiesto una crescita, di completare la mia formazione di persona e lettrice, prima di aprirsi.
Molto tempo dopo ho ritrovato Clarissa nel Meridiano dedicato ai tuoi romanzi. Di nuovo la strada impervia, all’inizio, la difficoltà a concentrarmi su questa figura di donna che si attarda a scegliere tra iris e lillà, garofani e piselli odorosi. E poi, all’improvviso, ho visto la ragazza che ero stata durante quella prima lettura interrotta, l’ho vista specchiata in un personaggio – o personaggia, come diciamo ora. Una possibile versione inglese di me nella signorina Kilman, consumata dalla povertà, avvelenata dall’odio di classe, piena di rabbia verso la famiglia Dalloway presso cui l’hai mandata a servizio come insegnante di storia della giovane Elizabeth. In poche pagine hai nominato, Virginia, tutte le sfumature del suo livore. Avrebbe voluto rovesciarlo inacidito su Clarissa, e invece lo ha represso e rimasticato ogni giorno, fino alla scoperta inattesa della fede, che sembra catartica, sembra sublimare il disprezzo cambiandolo in compatimento, salvo qual¬che rigurgito traditore in cui invidia e amarezza riaffiorano. La signorina Kilman «faceva sentire gli altri così meschini».
Potevo essere io come lei. Non so bene cosa mi abbia salvata, forse le persone incontrate, che mi hanno indicato altre strade. O forse la scrittura, coltivata in segreto fin dall’infanzia. E anche la lettura, oggi lo so con certezza, è stata determinante nello scampare il pericolo di essere una Doris Kilman di provincia.
Così, Virginia, ho potuto terminare La signora Dalloway. Ho allentato le resistenze e ti ho seguita, nella tua rigorosa unità di tempo e di luogo, in quella flânerie londinese e in ogni cambio del punto di vista, mettendomi con te sulla spalla ora di un personaggio, ora di un altro. Sono entrata nella follia di Septimus e nello spavento di sua moglie, nella giovinezza di Elizabeth e, infine, nella complessità di quella stessa donna che nella lettura ideologica dei miei diciassette anni avevo trovato così antipatica: ero, a momenti, la signora Dalloway.
Non potevo sapere, Virginia, quanto questo assumere insieme a te lo sguardo ora dell’uno ora dell’altra mi avrebbe aiutata nella scrittura, nel comprendere – senza giudicarli – i torti e le ragioni di ogni personaggio. E quanto mi aiuterà forse nel futuro, nel tentativo che ho in mente di rinunciare alla prima persona per assumere almeno una volta la terza.
Non ho più dimenticato Clarissa, è rimasta nella memoria come monito contro la cattiva lettura. Il mio primo giudizio di superficialità contro di lei andava invece spostato su di me, giovane ma anche rigida lettrice. Impaziente, non avevo saputo aspettare lo svelarsi del tuo personaggio. L’avevo trovata così irritante in quell’ansia di vita tesa solo alla futilità di una festa, da perdermi il momento in cui lei abbandona tutti e si ritira in un salottino vuoto ad accogliere il convitato più inatteso e sgradito: la morte. Le è bastato il resoconto del suicidio di Septimus, di cui nulla sa, per prenderlo su di sé. Nello stesso istante «lo splendore della festa cadde a terra». Nel chiacchiericcio di fondo soltanto la padrona di casa entra in contatto con ciò che è successo fuori di lì, il corpo che si è abbattuto sulle punte rugginose di un’inferriata «tenendo stretto il suo tesoro» di autenticità, mentre lei lo dilapida ogni giorno nelle inconsistenze mondane.
Clarissa è sola, presa da quella morte non sua, e in¬tanto preserva saldo il legame con la vita che scorre, gli invitati a cui tornare, l’anziana donna che dalla finestra vede muoversi nella casa di fronte mentre si prepara alla notte e spegne la luce. Affiora intensa la sofferenza di Clarissa, la sua umanità. Tutto contiene nel suo cuore un po’ malato, la signora Dalloway, la profondità e la leggerezza.
Ti sono grata per avermi aspettato, Virginia, e per avermi concesso una seconda possibilità. Riapro il Me-ridiano e trovo qui una macchia di caffè, lì le sottolineature di una matita, su qualche pagina le orecchiette che marcano l’opportunità di tornarci. Sento tra queste righe così vissute la traccia silenziosa del tuo perdono.
Donatella —