Avvenire, 9 marzo 2022
Le poesie di Fernanda Romagnoli
Una tra le scoperte supreme della poesia mondiale, da Dante a Iosif Brodskij, è il legame inestricabile tra la creazione poetica e il sentimento - non occasionale ma radicale, ’metafisico’ - dell’esilio. Questo sentimento ha, da Emily Dickinson in poi, una declinazione tutta propria nell’ambito della poesia moderna concepita da donne, una declinazione tanto evidente quanto sfuggente a tutte le formule e le categorie ideologiche. Anche l’opera di Fernanda Romagnoli ne è segnata fino al midollo. Come la sua amatissima Dickinson, Fernanda sa riconoscere la sfasatura, la distanza incolmabile dalla propria verità spirituale e umana non solo contemplando il cielo, il lontano, le albe o la luna ma in luoghi e fra oggetti minuti, minimi: di fronte a un «tetto di bandone / che s’aggrappa a un fantasma di pianta», tra «i robot smaltati di cucina» oppure osservandosi allo specchio «in una scolorita veste rossa». Tutto ciò che è piccolo e fragile muove l’attenzione, il dolore e la pietà della poetessa (…). L’esilio è qui, radicato nel corpo, nei gesti, nelle crepe che incrinano i momenti, i sogni d’amore o il nostro volto invecchiato. Eppure, se potesse scegliere come e dove morire, Fernanda (così ci confessa in una poesia forse scritta nell’ultima parte della sua vita) vorrebbe proprio un luogo segnato dallo stigma più squallido, più anonimo dell’esilio: uno di quei fossi di periferia in cui a volte sono scoperti cadaveri di prostitute o di altri reietti. Meglio, molto meglio quell’esilio piuttosto che le scatole di cemento che ci soffocano in città… meglio perdersi con «le scarpe tra le foglie» e il corpo «in custodia alle radici». (...)
Forse, accettato sino in fondo, vissuto come una prova irrefutabile delle nostre colpe, un giorno l’esilio potrà rivelarsi come la forma suprema della nostra libertà? Nutrita da un doloroso, scottante sentimento cristiano, questa idea sacrificale è il perno paradossale attorno a cui ruota molta parte dell’opera della Romagnoli: penso anzitutto a
Libertà, una delle grandi liriche del Tredicesimo invitato.
Questi versi evocano nei tempi verbali della fiaba o del mito (il passato remoto, l’imperfetto) un sogno, o meglio una visione che ha il respiro di quelle di Blake: l’ascesa dell’anima di Fernanda al non-luogo dove terminano lo spazio e il tempo, a quell’«estuario» impensabile dove tutte le umane misure perdono ogni senso: «Non v’era qui altro metro che l’eterno. / Non v’era riva fuor che lo splendore ». In questo splendore l’anima di lei, «arsa viva», si crede per un po’ sciolta da sé stessa, dalle ombre del passato, dalla memoria di ciò che è stata la sua vita. Perché, allora, si sente «appena appesantita / dalla parte del cuore»? Cosa continua a vibrare in lei se non l’eco straziante del suo esilio terreno perduto e di coloro che l’hanno condiviso con lei, dei loro occhi inermi, delle loro labbra e mani, della loro povera carne? In bilico tra il bisogno disperato di perdersi finalmente nel puro splendore divino e i tremanti ma tenaci riverberi della condizione umana, Fernanda capisce d’un tratto di non poter altro che rifiutare la purezza assoluta, di non poter altro che ridiscendere incontro alla struggente povertà della vita: «Io sono stanca d’essere tutta pura. / […] / E bianca come una monaca che abiura / mi svesto di te, libertà».
«Svestirsi» del sogno della libertà suprema, se esso significa negazione della nuda verità del mondo, di quella povertà creaturale che è intima, sacra bellezza: disertare da ogni forma astratta di purezza, abiurare a ogni idea platonica della verità: in quale altro modo, si chiede spesso Fernanda fra le righe dei suoi testi, un’anima può aspirare a «un po’ di luce vera », quella luce che si annida tra le ferite e le umiliazioni delle creature, quella luce che è il dono umile e sublime di Cristo?
Figure sacrificali, striature di sangue, soffi agonici intimamente legati alla Passione di Cristo attraversano il mondo di Fernanda come scie, tracce, segni di un dolore misterioso ma forse necessario alla salvezza del mondo dalla morsa del vuoto, del nonsenso, della morte. (…) In ogni
alba è come se si ripetesse il sacrificio e la difficile vittoria di Cristo sulla morte: la notte dev’essere «assassinata » per poter risorgere circondata da «lunghissime bende» fluttuanti ( Mandorli).
Dal Vangelo di Luca all’Apocalisse, da Ildegarda a Tommaso d’Aquino una lunga tradizione scritturale e sapienziale, certo nota alla Romagnoli almeno nelle sue linee essenziali, ha legato in un intreccio simbolico inestricabile l’immagine dell’aurora alla figura del Cristo Sole vittorioso sulle tenebre del male. Per Fernanda la rinascita del sole è sempre una prova ardua per chi si immedesima nel suo mistero doloroso e gaudioso: «Quando al sudario del cielo / l’oriente getta una rosa / riconsumando il supplizio / della resurrezione della carne», lei si scopre inerme, sgomenta e bisognosa di condividere con qualcuno il suo stupore e la sua vertigine («dammi la tua mano da stringere ») perché proprio allora sente l’«assedio» di Dio, il suo impossibile richiamo dall’Altrove, il suo imporre al «povero corpo» mortale «la folle tentazione dell’eterno » ( Quando). Investendo come un fuoco o un flusso abissale di sangue la sua umanità, questo richiamo la lascia tramortita, inchiodata ai suoi limiti, «confitta dal limo terrestre / come uno spino». Ma nello «spino » non brilla forse, ancora, un bagliore della luce di Cristo?
La morte e resurrezione di Lui è un evento cosmico teso fra cielo e terra di cui pochissimi poeti hanno saputo esprimere l’immensità con la stessa potenza visionaria della Romagnoli. Un’altra poesia del Tredicesimo invitato dedicata all’alba (l’ora da lei prediletta) riecheggia sia quel passo del Vangelo di Giovanni in cui Gesù annuncia il proprio ritorno agli apostoli dicendo loro che, se adesso sono tristi, saranno lieti come la donna dopo il parto, sia quel brano, non meno mirabile, di Paolo che ci mostra l’universo in procinto di essere trasformato dalla Redenzione come attraverso «le doglie» di un parto, ma sa riplasmare fonti di tale altezza in una tessitura d’immagini tanto spasmodiche, palpitanti e convulse quanto originali, icastiche e sfolgoranti: «(…) Era là fuori / la notte in piena doglia; / si sforzava di uscire dalle grotte / di sé stessa. / Affannosa. Le esultava / l’ampio addome di brividi, il madore / ne intrideva le stelle. / Fu come / per una donna: trattenne / un lungo attimo il fiato. E il suo dolore / s’assommò, sangue ed anima, in un grido / - lassù - di rosa.».