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 2022  marzo 08 Martedì calendario

Intervista a Carlo Feltrinelli. Racconta chi era suo padre

Carlo Feltrinelli, qual è il primo ricordo di suo padre?
«Metà Anni Sessanta, il mare della Corsica in tempesta, le onde alte come nei cartoni animati. Ma io non avevo paura, perché al timone dell’Eskimosa c’era mio padre Giangiacomo. Il capitano dava sicurezza».
Perché Eskimosa?
«In onore di mia madre Inge, che secondo lui aveva gli zigomi da eschimese».
Sono bei ricordi?
«Molti sono legati alle vacanze, all’Argentario o in Austria. I Natali in cui andavamo nella neve a dar da mangiare ai cervi: rape, barbabietole, fieno, sale… E poi gli ultimi anni, quando lo vedevo di nascosto».
Tutta la storia della famiglia Feltrinelli ha qualcosa di grandioso e di tragico. Suo nonno Carlo aveva tre fratelli, e tutti ebbero una sorte drammatica.
«Giuseppe era un cacciatore. Si affezionò a un cucciolo di orso, che allevò come fosse un cane. Ma era un orso e quando un giorno gli saltò al collo per giocare lo azzannò. La ferita non guarì. Per lenire il dolore divenne morfinomane e morì a 35 anni. Un altro zio di mio padre, Pietro, si suicidò a 28 anni per amore di una ballerina romena. L’altro prozio, Antonio, fu investito nel 1942 da un camion militare. Lo curarono con impacchi di pepe: morì di setticemia in pochi giorni. Quando lo deposero nella bara il corpo si aprì in due, pieno di vermi».
Restava nonno Carlo. Legname, edilizia. Presidente della Edison e del Credito Italiano. Il suo amministratore delegato in una battuta di caccia sparò a sua moglie.
«Sì, mia nonna Giannalisa si prese una fucilata in volto. Perse un occhio; ricordo per casa le boccettine con l’occhio di vetro. Era eccentrica, bellissima, gelida. Mi raccontò che era stata vittima di un disgraziato irresponsabile; ma non si esclude la gelosia d’amore».
Carlo Feltrinelli cadde in disgrazia durante il fascismo e morì. Si parlò di ictus, ma anche di suicidio.
«Non si è mai saputo bene. Un testimone, Giacinto Motta, scrisse di un “gesto pazzesco”. Io credo all’emorragia cerebrale. Fatto sta che muore all’improvviso, a 54 anni. Giangiacomo ne aveva otto».
Nonna Giannalisa si risposò con Luigi Barzini junior.
«Il giornalista più famoso d’Italia si univa alla vedova più ricca. Alle nozze Giangiacomo e sua sorella Antonella furono costretti a tirare, anziché il riso, monete d’argento. Lui e il patrigno si detestarono fin dall’inizio. Feltrinelli veniva chiuso in cantina a pane e acqua per giorni, e divenne claustrofobico. Ricordava Barzini con certi accappatoi da gangster e pantofole di velluto. Più tardi avrebbe contribuito a dare un’immagine folkloristica di mio padre e del suo impegno culturale e politico».
Barzini e nonna Giannalisa finirono al confino.
«Lui si era fatto prendere da frenesie spionistiche. Fece intendere agli inglesi che i servizi italiani leggevano le loro comunicazioni. Quelli verificarono subito, inviando all’ambasciata un messaggio con le parole di Barzini, citandolo. Il regime lo punì. Ma fu un confino dorato: ad Amalfi, all’hotel dei Cappuccini».
Giannalisa comprò dal Duce un titolo nobiliare per suo padre.
«Marchese di Gargnano. Chissà se è trasmissibile…» (Carlo Feltrinelli sorride).
L’8 settembre li colse nella villa dell’Argentario.
«Giangiacomo si diede al bosco: scappò armato di pistola con il futuro macellaio del paese. Voleva battersi, e ne ebbe occasione: si arruolò nel Corpo di combattimento Legnano, che risaliva la penisola con la Quinta Armata americana».
Le parlò della guerra?
«Un colpo di mortaio lo mancò di pochissimo. Lui tentò di recuperare il bossolo; e mentre lo raccontava faceva proprio il gesto di scavare con le mani».
Poi Giangiacomo entrò nel Pci.
«Sua madre, legatissima a Umberto II, l’aveva portato in Portogallo dal re, ma lui fuggì per tornare in Italia. Fuggì anche nonna Giannalisa, prima in Brasile poi in Canada, dove comprò un passaporto per diventare canadese e poter diseredare i figli degeneri. Antonella le fece causa, mio padre lasciò perdere».
E finì in galera per la prima volta.
«Nel 1948, dopo l’attentato a Togliatti: si fece cinque giorni a San Vittore, per affissione di manifesti non autorizzati. La sua prima moglie, Bianca, gli portava in carcere il cestino del mangiare».
La vostra casa, la leggendaria Villa Feltrinelli sul lago di Garda, era stata requisita per alloggiare il Duce.
«Ricordo i bunker scavati nella roccia, con i telefoni funzionanti. Nel 1949 mio padre organizzò nel parco un campeggio per quindici giovani comunisti. Qualcuno venne reclutato nella “banda Ciappina”, detta anche “banda ovunque”, che con le armi della Resistenza faceva le rapine. Lui non c’entrava nulla, ma fu arrestato di nuovo».
Togliatti gli propose di creare una biblioteca che raccontasse le lotte degli operai di tutto il mondo.
Le lettere con Pasternak
Nelle buste infilava metà banconota, e l’emissario che gliele portava aveva con sé l’altra metà
«Gli disse che l’idea veniva da un prete. La Fondazione Feltrinelli nacque così».
E suo padre scoprì Il Dottor Zivago.
«Seppe che Boris Pasternak stava per finire un romanzo straordinario, e gli scrisse in francese per offrirsi di pubblicarlo. Pasternak rispose con un bigliettino scritto su una carta di sigaretta, che conservo tutt’ora. Dice: d’ora in avanti ci scriveremo solo in francese; se lei riceverà una mia lettera in un’altra lingua, sappia che non sono io. Per maggior sicurezza, mio padre inventò il sistema della banconota tagliata».
Come funzionava?
«Nelle lettere per Pasternak infilava metà banconota, e l’emissario che gliele portava aveva con sé l’altra metà, per dimostrare che erano parole autentiche. Furono accorgimenti utili».
Perché?
«Krusciov bloccò il libro. Pietro Secchia, che pure era amico di mio padre, gli chiese di non pubblicarlo. Lui disobbedì. Pasternak gli scrisse prima in italiano, poi in russo, intimandogli di rinunciare; ma subito dopo arrivavano lettere in francese, in cui diceva di andare avanti. Legga qui: “Non trovo parole sufficienti per esprimervi la mia riconoscenza. L’avvenire ci ricompenserà”. Pasternak vinse il Nobel e Zivago vendette milioni di copie in tutto il mondo».
Poi arrivò Il Gattopardo.
«Rifiutato da tutti gli editori. Fu Elena Croce, la figlia di don Benedetto, a segnalarlo a Bassani, dicendo che era opera di “una signorina aristocratica siciliana…”».
Equivoco o scherzo?
«Non si è mai saputo. Doveva uscire all’inizio del ’59, ma una copia destinata a Del Bo, collaboratore di mio padre, fu mandata per sbaglio a Carlo Bo, che sulla Stampa scrisse una recensione entusiasta. Così Il Gattopardo fu anticipato al Natale 1958. Si era creato un gruppo formidabile: Mario Spagnol, Giampiero Brega, Valerio Riva, Luciano Bianciardi…».
Bianciardi definì Giangiacomo «ignorante come un tacco di frate».
«Una volta gli chiesi: tu quanti libri hai letto? Tanti, non tantissimi, rispose».
Nel 1958 incontrò sua madre Inge, ad Amburgo.
«Lei era appena tornata dal Ghana, aveva già fotografato Hemingway e Picasso. Giangiacomo era diretto al Polo Nord, con la tenda e lo zaino, dove c’erano le bozze del Gattopardo. Si videro a una festa dell’editore Rowohlt. Parlarono tutta la notte su un panchina di fronte all’Alster. Se è per questo, Giangiacomo aveva passato un’intera notte con un compagno ad ascoltare musica popolare jugoslava…».
Lei Carlo nasce il 6 febbraio 1962.
«A San Marino, perché era l’unico posto dove fosse possibile riconoscere il figlio di una coppia illegittima. Anche se in realtà mio padre ha sempre sposato le donne che amava: Bianca, Nanni, Inge, Sibilla. Con mia madre si sposarono in una catapecchia in Messico. Per la mia nascita telegrafarono Gianni Agnelli e Pietro Secchia. Secchia poi venne a casa di persona, per chiedere come mai di secondo nome mi avessero chiamato Fitzgerald».
Già: perché? Come Scott Fitzgerald o come John Fitzgerald Kennedy?
«Né l’uno né l’altro. Inge diceva che Fitzgerald in irlandese significa “figlio di nessuno”; come Esposito in napoletano. Ma perché abbia scelto quel secondo nome proprio non lo so».
Alcuni descrivono suo padre come brusco, altri come cortesissimo. Com’era nella realtà?
«Diffidente, con un grande senso dell’umorismo. Trattava tutti alla pari, tutti allo stesso modo: molti gli hanno voluto bene per questo, è una delle cose che mi ha insegnato. Poteva essere scostante, arcigno. Mia madre diceva che era malinconico».
E con lei?
«Protettivo. Pieno di affetto. Mi dava grande sicurezza. Anche quando era lontano. Per il nono compleanno mi mandò una conchiglia e questa lettera: “Il regalo più bello che posso farti è lottare per un mondo migliore, per un mondo più giusto”. Mi colpisce sempre quando ci ripenso. Spesso giocavamo a scacchi».
Chi vinceva?
«Ovviamente lui. Era un modo di insegnarmi a ragionare, a confrontarmi. Seguivamo le sfide tra Fischer e Spasskij. Qualcuno mi ha detto che come scacchisti eravamo simili: forti in attacco, meno in difesa».
A suo padre accadeva di incontrare Enrico Cuccia e Fidel Castro.
«Con Cuccia andò malissimo. Lo presentò a un funzionario: “Questo è il famoso signor Feltrinelli, con l’hobby dell’editoria…”. Feltrinelli si alzò e se ne andò, senza salutare».
E con Castro?
Il gelo con Cuccia
Presentò mio padre a un funzionario come «un editore per hobby», lui se ne andò senza salutarlo
«Fidel si aspettava un capitalista con le ghette. Cominciò a parlargli di affari: Cuba poteva esportare zucchero e bestiame in cambio di prodotti chimici… Mio padre gli ricordò che era lì per un libro. Poi annotò: Castro non è comunista né marxista, è un idealista».
Ma anche un oppressore.
«La Cuba dei primi anni 60 era la capitale del mondo inquieto. Non solo la centrale delle lotte anticolonialiste; il rifugio di scrittori e artisti. Mio padre vi incontrò Calvino, tornato per la prima volta sull’isola dov’era nato. E comunque il libro non si fece».
Perché?
«Castro pensava a memorie militari noiosissime, come quelle che poi ha pubblicato: “Un giorno sulla Sierra Maestra…”. Giangiacomo voleva un libro di attualità e di prospettiva».
Dopo piazza Fontana entrò in clandestinità.
«La parola non mi piace. Dovette rendersi irreperibile: ci bruciavano le librerie, la polizia perquisiva la sede di via Andegari… C’è un libro di Paolo Morando, “Prima di Piazza Fontana”, che racconta bene la fase preparatoria, il tentativo di incolpare gli anarchici. Mio padre era uno dei bersagli».
Anche i Gap, l’organizzazione fondata da lui, fece attentati: ai cantieri, alla Ignis…
«Erano gesti simbolici, dimostrativi. Come le interferenze radio con cui nel 1969 Giangiacomo interruppe Tito Stagno, che raccontava l’allunaggio, per chiamare i genovesi alla rivolta contro il comizio di Almirante. Piazza Fontana fu una strage fascista di Stato. Aprì una strategia che mio padre aveva intuito».
Il golpe di destra non ci fu.
«Certo. Ma ci furono i tentativi di Borghese, della Rosa dei Venti e, sia pure in un contesto del tutto diverso, di Edgardo Sogno. Molti fatti hanno confermato l’analisi di mio padre. Compreso il coinvolgimento delle basi Nato da cui venne l’esplosivo per piazza della Loggia».
Sua madre però tentò di fermarlo.
«Certo. Giangiacomo commise un grave errore. Ma è il momento di andare oltre la visione caricaturale del miliardario sovversivo. È tempo di storicizzare quella stagione. Di riconoscere la densità umana e intellettuale di una persona che ha avuto diverse vite. È stato uno degli editori più importanti, non solo in Italia. Ha creato istituzioni che restano, a testimonianza di una vita libera, piena di intrapresa e di spirito rivoluzionario».
Non ci fu neppure la rivoluzione.
«Era un anacronismo storico, in quel momento, nel nostro Paese. Ma non per questo si può parlare di parodia della rivoluzione. Non riconosco né le narrazioni orrorifiche, né quelle idilliache. Le rivoluzioni hanno momenti imprevedibili».
«Un rivoluzionario è caduto» titolò Potere operaio dopo la sua morte. Inge Feltrinelli era convinta che fosse stato ucciso.
«Lo so. Ma mia madre non poteva esserne sicura al cento per cento. Io credo alla versione ufficiale, all’incidente. Ma neppure io posso esserne sicuro al cento per cento».
Lei ha parlato con «Gallo», il compagno che era con suo padre sotto il traliccio di Segrate.
«Ci fu l’esplosione. Gallo fuggì a piedi con un altro compagno, morto giovane. Non avrebbero potuto salvarlo. Doveva essere un atto dimostrativo. Non sapremo mai con esattezza se il timer fosse stato manomesso. Per il magistrato che chiuse l’inchiesta, la morte di Feltrinelli restava un mistero. Di sicuro mio padre era sfuggito a diversi tentativi di sequestro. Aveva nemici da cui dovette guardarsi».
Ebbe un ruolo nella vendetta per la morte di Che Guevara.
«Questa è un’altra storia. Diede a Monika Ertl, credo in Francia, la pistola con cui lei sparò al colonnello Quintanilla, l’uomo che aveva mozzato le mani al Che per certificarne la morte. E che aveva torturato Inti Peredo, il fidanzato di Monika. Che peraltro era figlia di un nazista…».
Quali sono i suoi ultimi ricordi di suo padre?
«Capodanno 1971, una battaglia a palle di neve: c’era anche un giovane militante di Potere Operaio, Valerio Morucci; Giangiacomo costruì un igloo vero. E Capodanno 1972: fuochi d’artificio sulla neve, un minirazzo sparato con il paracadute. In Italia lo vidi una volta sola».
Dove?
«Nella nostra casa in Piemonte, a Villadeati. Era il maggio del 1971. Inge l’aveva invitato per farlo desistere dalla sua lotta. C’erano anche Régis Debray e Moravia, che però non aveva capito, continuava a parlare di sesso, di incesto… Era già un po’ sordo, si informava se Debray fosse pederasta a voce troppo alta. Io non dovevo sapere nulla; mi alzai nella notte sentendo il trambusto. Mio padre mi abbracciò».
Nome di battaglia Osvaldo, documenti intestati a tale Vincenzo Maggioni.
«Il commissario Calabresi intuì che il cadavere sotto il traliccio era lui. Venne in via Andegari a prendere Giovanni, il portiere, e lo portò all’obitorio. Giovanni lo riconobbe, ma tacque».
Come seppe della sua morte?
A Cuba da Castro
Fidel gli parlava di affari Mio padre di lui annotò: non è comunista né marxista, è un idealista
«Me lo disse mia madre. La mattina del 15 marzo 1972 dovevamo vederlo in un caffè di Lugano; ma lui era morto la sera prima. Nel portafoglio aveva la mia foto. “Lo faccio per mio figlio” aveva lasciato detto a un compagno».
Come ricorda i funerali?
«Partecipai alla cerimonia privata, tra i grandi editori venne solo Giulio Einaudi. Mi fu risparmiata quella pubblica, dove c’erano cinquemila persone e cinquemila celerini. I librai Feltrinelli portarono la bara. Il Monumentale di Milano, con cappella di famiglia babilonese, non è il posto che avrei voluto per Giangiacomo. Mia nonna commentò, atroce: “Ho finito di soffrire”. In realtà tutti, mia madre Inge per prima, sentivamo che dovevamo andare avanti. E l’abbiamo fatto, anche per lui».