il Fatto Quotidiano, 8 marzo 2022
Full Metal Figliuolo, 304 pagine di narcisismo
È con grande orgoglio, non scevro da una certa gelosia (come quella che provano i genitori che hanno fatto studiare i figli al Conservatorio e poi li vedono sul palco della Filarmonica di Vienna) che accogliamo oggi l’uscita di Un italiano. Quello che la vita mi ha insegnato per affrontare la sfida più grande (Rizzoli), il libro del Generale Francesco Paolo Figliuolo in “conversazione” col giornalista Beppe Severgnini.
È un anno che ve lo diciamo: guardate che questo è un gran personaggio; e mentre gli altri giornali legavano la campagna vaccinale all’amor di patria (“È il momento di stringerci a coorte”, comandava Figliuolo a chi rifiutava AstraZeneca, poi da lui ritirato perché pericoloso), noi ne seguivamo le gesta, l’oratoria motivazionale, l’epica marziale fin nelle minime espressioni del volto, quando usciva da un gazebo di vaccini in provincia di Potenza e sembrava che avesse appena vinto a Austerlitz.
Quanti ricordi. Oggi questo libro fa emergere le già preclare qualità del Generale chiamato da Draghi (anzi, da Guerini, s’apprende) a ricoprire il ruolo di Commissario Straordinario all’emergenza Covid: umiltà, understatement, rifiuto dell’enfasi. “Ho contribuito a vaccinare una grande democrazia”. Se Putin ci attacca, casca male. La democrazia vaccinata la trionferà. Un pezzo di questa grande democrazia è rimasta svaccinata: i 6 milioni di novax che Figliuolo era determinato a stanare – con l’obbligo sopra i 50 anni, l’esclusione dallo stipendio e dalla vita sociale e infine con Novavax, il vaccino di cui si sono somministrate poche migliaia di dosi – non si è riusciti a convincerli (ma è di queste ore la notizia dell’offerta di un vaccino a piacere ai rifugiati ucraini: a qualcuno dovremo pur rifilarle, queste scorte).
Qualche highlight: Severgnini: “Lei è un alpino, porta in giro la sua penna come una bandiera. La rassicura?”. Figliuolo: “Molto. Essere alpino è una scelta identitaria, non una professione” (immaginiamo che domande e risposte siano gridate, tipo Full Metal Jacket).
Seguono chiarimenti rilevanti per la nazione: “Lei si arrabbia facilmente?”. L’uomo che ha retto le sorti del Paese nell’ora più buia risponde: “Purtroppo sì. Ma mi passa… Sono un po’ iracondo, lo ammetto… Tendo a reagire d’impulso, magari mi arrabbio, tiro un urlo”. (Nel dubbio meglio mettere in sicurezza la centrale nucleare di Latina). Severgnini, implacabile: “È ambizioso?”. Figliuolo: “Diciamo che ho una certa considerazione di me stesso”. “Egocentrico?”. “Secondo lei?”. “Sì, abbastanza. Vanitoso?”. “Un po’ sì”. “Un po’…?”. “Ok, sono vanitoso”. Immaginatevi 304 pagine tutte così, un compendio di narcisismo ed esibizionismo che in confronto Bassetti è Salinger (un libro, per una tele-star, è un passo prima dell’Isola dei famosi), con banalità da dopocena su Afghanistan, cappelli, imitazioni di Crozza etc.
Poi Figliuolo si fa soldato e poeta civile, interprete dei valori di una comunità, come Ungaretti: “Perché vuole scrivere questo libro?”, chiede Severgnini, e noi con lui. “Perché qualcuno capisca cos’è successo e cosa abbiamo rischiato. E sappia che questo alpino ce l’ha messa tutta. Con i suoi difetti, con i suoi limiti, con la sua impazienza, con molte arrabbiature. Ma ce l’ha messa tutta”. Dio, se ci manca. Con le sue “spallate”, i suoi “cambi di passo”, il suo “vacciniamo il primo che passa” (qui rinnegato), le sue salite al monastero agostiniano di Cascia, le preghiere a Santa Rita per uscire dalla pandemia (che poi è finita, come da decreto di Draghi), la sua divisa maiolicata di mostrine (“Una decisione d’istinto” indossarla h24: noi pensavamo fosse studiata). A un certo punto, per quanto possa sembrare incredibile, Severgnini lo aiuta a scrivere il suo epitaffio: “Qui non riposa Francesco Paolo Figliuolo. Neanche adesso riesce a stare fermo”. “Fantastico, lo prenoto”, dice Figliuolo, a cui mancò la fortuna, non il valore.