Avvenire, 8 marzo 2022
Giovanni Verga e i conti di casa
Trascorso da poco, tra clamori e qualche polemica, il settimo centenario dantesco, è ora la volta della ricorrenza dei cento anni dalla morte di Giovanni Verga (1840-1922). Il clima però è sostanzialmente cambiato, tant’è che l’impressione è che se ne parli solo per dovere di circostanza, se si escludono le manifestazioni annunciate da istituzioni e fondazioni specifiche. Il fatto è, forse, che il mondo di Verga, la vita dei campi, la sofferenza degli umili, il sudore e la fatica dei suoi personaggi, sembrano lontani mille miglia dalle inclinazioni della società attuale fondata sul benessere, dedita al vuoto dei mediatici predicatori di vanità. Rosso Malpelo, Jeli il pastore, Padron ’Ntoni appartengono ad un universo lontano che sembra aver interrotto la comunicazione con la coscienza contemporanea e, ancor di più, con quella critica, specialmente dopo che le discussioni sul caso Verga negli anni Settanta avevano costretto ad accantonare, in quanto fuori centro, l’idea di uno scrittore nazionalpopolare e progressista. Il Verga venuto fuori da quei dibattiti era invece uno scrittore perfettamente consapevole delle proprie convinzioni di galantuomo di campagna, scettico verso il progresso industriale e il ruolo dominatore delle banche, strenuo difensore della proprietà privata, incline a considerare gli sforzi delle comunità arcaiche, contadine o di periferia urbana, ma senza l’illusione che il vento potesse cambiare il loro destino. Questa ideologia negativa lo accompagnerà sempre, tant’è che negli ultimi anni, ritiratosi ormai a Catania, era preda di una volontà di auto-annullamento totale, fino a nascondersi agli stessi amici del Circolo Unione, che non avevano letto I Malavoglia ma che lo rispettavano per l’educazione e il suo «aspetto signorile» (Patti). Il lavoro di ricerca su Verga, comunque, tra alti e bassi, per fortuna non si è mai arrestato e in qualche caso ha prodotto risultati considerevoli, in particolare sul piano biografico. Due illustri studiosi dell’Università di Catania, Giuseppe Savoca e Antonio Di Silvestro, da molto tempo hanno dedicato le loro energie alla ristrutturazione del corpus delle lettere familiari, sistemate in due volumi usciti a distanza di anni l’uno dall’altro: le Lettera alla famiglia (1851-1880), apparse nel 2011 (Bonanno) e le Lettere ai fratelli (1883-1920), uscite nel 2018 (Fondazione Verga/Euno). Occorre dire che in passato qualche tentativo era stato fatto in questa direzione con l’edizione delle Lettere sparse (1979) curate da Giovanna Finocchiaro Chimirri, ma la grande quantità di inediti venuti alla luce negli ultimi anni e le tormentate e rocambolesche vicende delle carte verghiane («un bel soggetto per uno scrittore di romanzi», scrive Savoca) hanno convinto i due studiosi citati a rimettere tutto in ordi- ne applicando i severi criteri della filologia, correggendo manipolazioni, date ed errori grossolani. Va detto, comunque, che la «consistenza del sommerso e delle perdite» ammonta nonostante tutto, tra vendite e speculazioni, purtroppo a migliaia di pezzi. Lo stesso Savoca, molto attingendo al materiale disponibile, approfondendo da vicino la conoscenza dello scrittore in carne ed ossa, ha ora riletto da nuove prospettive i suoi testi in un originale volume dal titolo Verga cristiano dal privato al vero( Olschki), presentato su queste colonne nelle settimane scorse, da cui emerge il profilo di un intellettuale che, a differenza di quanto era nella tradizione interpretativa, appare sensibile ai valori della famiglia e della religione, compresa la dimestichezza con i testi sacri.
Certo, i carteggi ci restituiscono un uomo alle prese con la vita quotidiana, con gli affari di famiglia, tra cambiali in scadenza e cause tra parenti, un via vai di avvocati di cui avevamo avuto più di un assaggio in Verga e gli avvocati pubblicato a suo tempo da Gino Raya (1988), un libro che ricostruiva la vicenda chilometrica della causa con Mascagni e Ricordi per i diritti di Cavalleria rusticana. Le vicende giuridiche comunque erano già lì a testimoniare una tendenza caratteriale alla lotta, a non lasciare nulla di intentato per difendere la propria ragione. Come anche l’attaccamento al denaro, che non va confuso con l’avidità, è un segnale concreto dell’importanza che si dà al dare e all’avere, come già dimostrava del resto il curioso Libro dei conti, in cui Verga annotava perfino gli spiccioli spesi per il cappuccino o per l’elemosina. Le lettere abbondano in esempi di questo tipo e sono la prova di una situazione economica mai stabilizzatasi e purtroppo mai “in attivo”.
Ma tutto questo, ci si chiederà, che cosa ha a che fare con i capolavori di Verga? A ben riflettere, la conduzione domestica ed economica non smentisce l’attaccamento, per educazione e per indole, alla roba, alla dea malsana che aveva sconvolto la vita di Mazzarò e di Mastro-don Gesualdo, tanto che, parafrasando l’amato Flaubert, Verga avrebbe potuto affermare senza ombra di dubbio: Gesualdo c’est moi.
Le missive ai fratelli Pietro e Mario , la tenerezza verso la madre rivelano inoltre l’indissolubilità di una nucleo familiare sempre venerato, in presenza e nel ricordo, come prova la carta da lutto delle lettere usata per molti anni anche dopo la scomparsa dei propri cari. Verga parla – scrive Savoca – «il linguaggio del cuore e della religione della famiglia» e ciò è evidente quando, lontano da casa negli anni milanesi, «sfiduciato di tutto», è vinto dal desiderio del calore della propria casa. Nel Verga “cristiano” non c’è forse da attendersi decise aperture teologiche verso il trascendente, bensì l’adorazione dell’immanente, che si traduce nei valori dell’educazione contadina, nella religione della famiglia e nell’onorare il padre e la madre, la cui benedizione è sempre invocata; una religione insomma pratica e rituale, applicata alla vita comune di tutti i giorni, senza slanci sovrannaturali, apparentata con la dirittura morale e con il buon senso, con il principio del “galantomismo”, che consiste nel “ben fare”, nel compiere onestamente il proprio dovere «con moderazione ma con fermezza» (al fratello Mario, 13 gennaio 1891). Un quadro non estraneo, se si vuole, al lettore dei Malavoglia, che ha in mente la collaborazione stretta tra esponenti dello stesso nucleo familiare, il potere del pater familias, il patriarca custode delle memorie, del culto e delle preghiere per i cari morti, delle tradizioni e dei lares; una rassegna di personaggi indimenticabili destinati a vivere nella lotta per la sopravvivenza la dimensione antropologica della storia.