La Stampa, 7 marzo 2022
Cosa si può dire
simonetta sciandivasciPoliticamente corretto e cancel culture sono parole sulla bocca di tutti. Sui siti dei principali quotidiani italiani, i numeri delle loro occorrenze, negli ultimi due anni, raggiungono e talvolta superano quelle di pandemia e Covid. Rappresentano, per la maggior parte delle persone che le pronunciano, quello che Berlusconi rappresentava negli Anni 90: la causa di tutti i mali, anzi l’origine del male, il motore immobile di una catastrofe culturale, più percepita che reale, meglio descritta in una frase parimenti ricorsiva: «Non si può più dire niente». È bizzarro che tutte queste parole vengano impiegate in un parlare e straparlare continuo, fluido in un senso antico e cioè incessante, senza che si abbia una contezza precisa di cosa designano, dell’origine che hanno, della loro storia semantica. Ed è bizzarro perché chi le impiega in quel senso allarmato lo fa mettendo sotto accusa l’ignoranza e la sciatteria della generazione e del tempo che le avrebbe prodotte.Quando sono nati il politicamente corretto (pol corr) e la cancel culture (cc), perché e cosa significano: niente di tutto questo sembra chiaro a chi ne parla, perché non importa né conviene a nessuno, o quasi a nessuno, indagare un capro espiatorio.È cronico, forse endemico: i fenomeni nuovi, se pure non inediti come questi due, vengono giudicati prima che indagati, criminalizzati prima che conosciuti. È già successo con le fake news e, in parte, con il #metoo: li abbiamo valutati a partire dalle conseguenze che hanno avuto, cosa legittima e doverosa, ma che non può esaurire un’analisi, anziché osservare con attenzione anche le premesse, le intenzioni, le origini.(Nota personale: a lungo sono stata da quella parte, ho guardato soltanto le conseguenze, ho incriminato la coda, il fenomeno più che la sostanza. Sbagliavo, e sento il dovere di ammetterlo).Non è tempo di élite culturali, né di élite tout court e lo sappiamo: sono altri capri espiatori impiegati soprattutto dai nemici, di fatto anche se non dichiarati, della competenza, osteggiata come discrimine classista. Tuttavia, una cerchia culturale è ravvisabile in chi impugna pol corr e cc per dire, non senza ragioni, che esiste una tendenza a voler eliminare e cancellare tutto ciò che non si capisce, che offende, che turba e che si tratta di una tendenza censoria, maccartista, retrograda, cieca e, fondamentalmente, ignorante, così come che esiste un «delirio identitario», tale per cui le minoranze che non si sentono rappresentate (incluse) pretendono che, per far spazio e onore alla loro storia e sensibilità (e identità, appunto), si tolga spazio e voce alle maggioranze, per una specie di meccanismo espiatorio. È una cerchia assai composita: include intellettuali d’oggi, di ieri, di destra, di sinistra, di centro che spesso non hanno in comune niente ma convengono sul fatto che pol corr e cc siano l’evento cataclismatico di questi anni, la recisione del e dal Novecento, l’espianto senza anestesia delle nostre radici. La settimana scorsa, l’università Bicocca di Milano ha annullato il corso di Paolo Nori su Dostoevskij per «evitare ogni forma di polemica soprattutto interna in quanto è un momento di forte tensione», ritrattando poche ore dopo, quando però era troppo tardi (Nori, giustamente, ha deciso di non tenere il corso). Antonio Scurati ha commentato la vicenda dicendo all’Ansa che «la cancel culture è sottocultura, va eliminata», e alcune agenzie hanno titolato che «il politicamente corretto e non la guerra ha fermato il corso di Nori». Wow. L’uso degli asterischi, della schwa, della desinenza U e tutte le correzioni linguistiche proposte dalla comunità Lgbt+, affinché le parole siano descrittive dei suoi membri: anche quelle sono assimilate alla cancel culture. Ed è piuttosto bizzarro che proposte di allargamento, di adeguamento a nuove realtà, di denominazione di nuove identità, vengano accusate di essere cancellatrici: o si aggiunge o si cancella. No? No. Perché l’identità trans è accusata di voler cancellare quella femminile ed è un fatto che le donne che osano dire che una donna è una donna vengono accusate di essere transfobiche. Possiamo limitarci a guardare questo orrendo fatto, e così chiudere la questione come la chiude Scurati, oppure interrogarci sul perché di quella reazione così violenta, possibilmente evitando di dare la risposta più comune (anche tra intellettuali), e cioè che è in atto un’epidemia di idiozia collettiva, esacerbata dai social network.Per chi volesse tirarsi fuori da questa griglia e anzi, da questo binarismo, domani arriva in libreria un lavoro importante, Non si può più dire niente? 14 punti di vista su politicamente corretto e cancel culture (Utet), che raccoglie le voci, tra le altre, di Elisa Cuter, Christian Raimo, Vera Gheno, Raffaele Alberto Ventura. È un lavoro illuminante che, oltre ad affrontare la questione, mettendo a confronto diversi punti di vista, cerca di studiarne le cause e, soprattutto, le strade che apre. Prima d’ogni cosa, il materiale di compendio: ce n’è moltissimo, ben argomentato, che racconta la storia, culturale e politica, di pol corr e cc che non sono soltanto le strampalate teorie elaborate dal progressismo americano universitario, ma movimenti che si sono evoluti nel tempo, rispondendo a esigenze di igiene del discorso pubblico, di rappresentanza delle alterità, di risemantizzazione del mondo. Federico Faloppa ricorda che il sintagma politically correct compare per la prima volta in alcuni documenti statunitensi del XVIII secolo e più o meno in tutti gli interventi si sottolinea come il pol corr sia stato una moda culturale degli Anni 90 americani piuttosto potente – quegli Anni 90 in cui si giravano film e scrivevano libri che, molto spesso, in questi ultimi due anni, i sostenitori del «non si può più dire niente», ricordano con la seguente nota dolente: «Oggi non si potrebbero fare». Mentre allora le spinte correttrici erano frutto di teorizzazioni di titolati intellettuali, ora arrivano dalle persone comuni, dagli influencer, da anonimi chiunque. Basta questo a delegittimarle? Il pulpito o la predica accreditano il prete?Elisa Cuter, ricercatrice, evidenzia un aspetto cruciale: la cultura che sovrintende e sussume pol corr e cc, la così chiamata «wokeness» (letteralmente, stare allerta, quindi prestare attenzione alle minoranze e alle nuove sensibilità), non è né di destra né, come si crede, di sinistra. Il fatto nuovo, forse anche questo non inedito, è che conservatorismo e progressismo non corrispondono più a destra e sinistra, e non soltanto perché nessuna di queste frange ha più identità e scopi chiari e precisi, ma pure perché nessuna di esse, e quindi nemmeno la «wokeness» che dovrebbe rappresentare una terza via, è in grado di porre al centro del discorso che fa sulla realtà quello che Cuter definisce, giustamente, «il protagonista della riflessione e della lotta politica degli ultimi due secoli», e cioè lo sfruttamento. Tra le note in esergo dello spassoso libro di Guia Soncini, L’era della suscettibilità (Marsilio), c’è un altrettanto spassoso Michele Serra: «Comunque si chiamerà, la nuova sinistra sarà quel gruppo di persone in grado di distinguere tra il grido degli oppressi e la ciancia degli imbecilli». Qui sta il punto e anche la ragione per cui la posizione di Scurati rischia di allontanarci da quella distinzione.Durante le recenti manifestazioni di piazza degli studenti, Lodo Guenzi ha detto a questo giornale che, mentre gli adolescenti combattono per i diritti di chi ha poco o niente, i trenta-quarantenni parlano di linguaggio, illusoriamente convinti che le parole, e non i rapporti di forza, cambino il mondo.Nell’ultimo numero della rivista The Passenger (Iperborea), Francesco Costa ricorda che, in California, il professor Greg Patton è stato sospeso per aver detto «nai-ge», un intercalare molto comune nel mondo asiatico e che ha una pronuncia assai simile alla «N word».Siamo tutti impazziti? Forse. Tuttavia è improbabile che si instauri una dittatura del pensiero: ben che vada tra 10 anni sapremo la differenza tra dire e parlare, tra minoranza e minorazione. Avremo imparato che pagare dazio per ciò che si è non è inevitabile.Eliot ha scritto che il mondo non finisce in un baccano, ma in un piagnisteo. Sta a noi, forse, evitare che il baccano diventi piagnisteo. Come? Ascoltandolo. —