la Repubblica, 7 marzo 2022
Giustizia sotto processo
Il libro-intervista è un genere letterario ormai molto affollato: Amazon ne offre in vendita più di duemila esemplari. Una fortuna recente, dato che questo neologismo – ci informa la Treccani – risale al 1984. E il canovaccio si ripete senza mai troppe varianti, con l’intervistatore (solitamente un giornalista) che pone domande compiacenti e l’intervistato (un personaggio della politica, della cultura, del costume) che a sua volta detta risposte compiaciute.
Però ogni regola ha le proprie eccezioni. Ne è prova un volumetto appena atterrato in libreria, dove si sviluppa un dialogo pressoché alla pari fra due voci entrambe molto note. Luciano Violante e Stefano Folli firmano infatti una ricostruzione a tutto tondo del travagliato rapporto fra politica e giustizia, visitando l’intera storia repubblicana, dalla Costituente ai nostri giorni. Il titolo ha un sapore programmatico: Senza vendette. Ricostruire la fiducia tra magistrati, politici e cittadini. Ma sul programma i due autori esprimono vedute non di rado contrapposte, e il sale del libro sta forse proprio in questo, in uno stimolo per noi lettori a prendere partito, o magari a immaginare un punto di vista terzo rispetto a quanto ci viene prospettato.
Qualche esempio. In primo luogo la responsabilità civile dei magistrati, su cui nei mesi scorsi era stato chiesto un referendum che la Consulta ha adesso invalidato. Accadde pure durante gli anni Ottanta, con la differenza che a quel tempo il referendum venne ammesso, ottenendo l’80 per cento dei consensi. Violante rivendica la bontà della legge Vassalli che ne circoscrisse poi gli effetti, stabilendo che lo Stato risponde direttamente al cittadino; dopo di che, se vuole, si rivarrà sul magistrato. E Folli: tuttavia lo Stato italiano non ha mai chiesto a un magistrato di rifondere il danno, ed è esattamente questo che giustifica la vox populi, ossia l’impressione che non sia cambiato granché nella sostanza. Ma le divergenze toccano vari altri aspetti dell’organizzazione giudiziaria.
La separazione delle carriere, dove invece il referendum è stato ammesso, sicché in primavera voteremo. Nel frattempo Folli si dichiara a favore (la possibilità che un pubblico ministero diventi giudice, o viceversa, è «un controsenso»), Violante no («accentuando la separazione, si accentua lo strapotere delle procure»). O ancora, ulteriore punto di dissenso: la massiccia presenza di magistrati negli uffici del ministero della Giustizia e del Csm. Criticata da Violante, giustificata da Folli (perché succede anche in altri ministeri, all’Interno dove lavorano i prefetti, alla Difesa con i generali, agli Esteri con gli ambasciatori).
In altri casi, viceversa, le due voci si fondono, tratteggiano un’unica denuncia, supportandola con una messe di dati. Sulla campagna elettorale permanente, che rende conflittuali e instabili le nostre istituzioni: negli ultimi vent’anni abbiamo partecipato a 34 elezioni nazionali o locali, a sei referendum abrogativi e a 3 referendum costituzionali. Sull’accanimento giudiziario: ne fu vittima Lorenzo Necci, Ad delle Ferrovie, processato per 42 volte e sempre assolto; politici di destra e di sinistra, come Mannino, Pittella, Bassolino, talvolta arrestati o processati per vent’anni, prima d’ottenere un’assoluzione piena; senza dire dei tanti sconosciuti. O infine sulle porte girevoli fra politica e magistratura (siamo il Paese in cui due pubblici ministeri, Di Pietro e Ingroia, hanno fondato due distinti partiti politici).
Ma dopotutto è un altro il punto decisivo. Concerne le ragioni del conflitto, della prevaricazione reciproca tra questi due poteri. Concerne inoltre il moto ondoso di riforme e controriforme che perennemente ridisegnano la linea di confine tra la cittadella politica e quella giudiziaria. In senso giustizialista dopo Tangentopoli, di cui ricorre adesso il trentennale; e infatti all’alba degli anni Novanta venne perfino emendata la Costituzione, rendendo più impervia l’amnistia e restringendo l’area delle immunità parlamentari.
In senso garantista durante i governi Berlusconi, sicché alla fine del decennio la Carta fu corretta in senso opposto, introducendovi i principi del “giusto processo”. Fino all’approdo ipocrita cui stiamo assistendo in questi anni, giacché ciascun partito si mostra garantista con gli amici, giustizialista con i propri nemici. Ecco, da dove scaturisce l’anomalia italiana?
Scrive Stefano Folli: questa condizione patologica deriva da una disarmonia, dallo squilibrio fra una politica sempre più debole e una magistratura sempre più potente, se non anche prepotente. Sarà così, benché al momento si registri una doppia debolezza, una doppia crisi di sfiducia popolare che colpisce ambedue i poteri. Aggiunge Luciano Violante: è colpa del tarlo deposto dai costituenti, che generarono un sistema debole, esaltando il primato del diritto (quindi della magistratura) sulla politica.
Sarà vero anche questo, benché ciò costituisca il fondamento stesso dello Stato di diritto («non è il Re che fa la legge, ma la legge che fa il Re»). E tuttavia, al di là delle sue cause, è impossibile negare gli effetti del disordine, per come vengono illustrati da Violante e Folli: un diluvio di leggi incomprensibili, che costringe i giudici a creare la norma, anziché applicarla; e che rende più insicura la vita collettiva.
Dopotutto, in questa lunga guerra fra politica e giustizia, siamo noi le vittime civili.