Corriere della Sera, 7 marzo 2022
Su "Dissolute e maledette. Donne straordinarie del mondo antico" di Lorenzo Braccesi (Salerno)
Con l’eccezione di Livia, l’influente moglie di Augusto, le donne del mondo antico sono immancabilmente descritte come intriganti, spesso come infide, rotte a ogni lussuria. Caratteristiche che si accomunano l’una all’altra, fa notare Lorenzo Braccesi in Dissolute e maledette. Donne straordinarie del mondo antico in uscita il 10 marzo per i tipi della Salerno. E le trasformano in una sorta di «archetipi mitici della nefandezza o della smodatezza femminile». Se fanno strage in battaglia, non ci si preoccupa di trovar loro le attenuanti invocate per gli uomini che compiono imprese altrettanto, o più ancora, efferate. Se cedono al trasporto dei sensi, «sono senz’altro delle prostitute». Se progettano o attuano un suicidio è perché «non resistono» al peso di azioni riprovevoli. Se prendono parte a cospirazioni fallite, «non sono riconosciute come soggetti politici», ma vengono condannate come «perturbatrici e sgualdrine». Quando poi le loro cospirazioni hanno successo, la riprovazione è doppia.
L’unica donna dell’antichità nei cui confronti viene usato un certo riguardo è, come si è detto, Livia. Il potere e l’influenza di Augusto sono tali che «nessuno, neppure tra gli autori più pettegoli o scandalistici, l’ha mai incolpata di offese o di violazioni alla morale». Anche se le modalità con cui spianò la strada alla successione per il proprio figlio di primo letto, Tiberio, autorizzerebbero qualche sospetto. Tutte le altre posso essere ripartite, secondo Braccesi, in quattro «categorie delittuose»: le «lordate di sangue»; le «cortigiane e adultere»; le «matrone chiacchierate»; le «regine dalla duplice fama». È giusto? No. Con un lavoro straordinario e ad un tempo impeccabile, l’autore prova a ridimensionare o a ribaltare la maledizione storiografica che le avvolge.
A partire da Tomiri, Olimpiade e Teuta. La prima è responsabile di aver vinto e ucciso in battaglia il fondatore dell’impero persiano Ciro il Grande (530 a.C.), infierendo, per giunta, sul suo cadavere. La seconda, madre di Alessandro Magno, è accusata di aver preso parte all’uccisione del marito, Filippo, per spianare la strada al figlio (336 a.C.). Alla terza, regnante su alcune tribù illiriche, viene imputato, da Polibio, di aver fatto uccidere Lucio, un inerme ambasciatore di Roma (229 a.C.).
Braccesi fa osservare che Tomiri «è una barbara, a capo di popolazioni nomadi stanziate nell’India e si adegua al costume delle sue tribù». E che reagisce all’interessata proposta di nozze di un re che le ha ammazzato il figlio (suicida, secondo la versione di Erodoto, «per non sottostare all’onta della sconfitta»). Ad approfondire la vicenda, scrive lo studioso, Tomiri, «più che un’assatanata artefice di rituali sanguinari», è «uno strumento per dispensare la giusta nemesi sul capo di Ciro castigandone la superbia». Ma soprattutto «per azzerare la folle corsa del monarca persiano verso il traguardo dell’impero ecumenico».
Per quel che riguarda Olimpiade, accusata nell’antichità di aver fatto uccidere, oltre a Filippo, anche una sorellastra di Alessandro e la madre di lei, Braccesi osserva che, come è abbondantemente dimostrato da decine di casi, «qualsiasi regnante maschio avrebbe fatto lo stesso e nessuno gli avrebbe rivolto accuse di depravazione». Nelle contese per successioni dinastiche, «l’esito dei perdenti non poteva che essere la morte». Sempre. D’altra parte, uno dei più importanti biografi del macedone, Albert Brian Bosworth – in Alessandro Magno. L’uomo e il suo impero (Rizzoli) – mette in risalto il fatto che Filippo, dopo aver divorziato, sfidò apertamente Olimpiade e levò la spada contro il loro figlio nonché legittimo erede. Quella di Olimpiade, scrive Braccesi, si rivela «una personalità di donna e di regina del tutto fuori dagli schemi che, nel bene e nel male, brilla di luce propria, mostrando capacità politica».
Quanto a Teuta, studiando con attenzione ciò che è stato tramandato, «si rivela molto meno sanguinaria di come ci viene presentata». A saper leggere tra le righe di quel che di lei è stato raccontato, fu una sovrana illirica, vedova di un re (Agrone) e «reggente di un monarcato tribale, la cui principale risorsa economica era offerta dalla pirateria e dalla guerra da corsa». Publio Annio Floro, storico romano di origini africane, ce ne parla in termini truculenti: «Gli Illiri, regnando Teuta, non paghi di devastazioni, aggiunsero alla loro sfrenatezza il delitto; uccisero a colpi di scure, non con la spada i nostri ambasciatori; bruciarono vivi i comandanti delle nostre navi e… il tutto fu ordinato da una donna per nostro maggior disonore». Braccesi dimostra con argomenti convincenti che non si può prestare fede a questo racconto. Non è vero che Teuta abbia fatto trucidare una «pluralità di ambasciatori», né, tantomeno, nei modi descritti da Floro; non è neanche provato che abbia disposto di «trasformare in torce umane gli ufficiali della flotta romana». Non si può escludere infine che il comando in quel preciso momento fosse riconducibile non a lei, bensì al suo consorte che forse era ancora in vita.
Interessante è come l’autore smonta i miti negativi costruiti attorno a Semiramide «la lussuriosa», Cleopatra «la licenziosa», Poppea «la diva». Per «scrostare il fango addossatosi su Poppea», scrive, «bisognerebbe anzitutto scrostarlo a piene mani dalla personalità di Nerone». E ancor più avvincente il modo in cui lo storico demolisce la demonizzazione di Artemisia («di marca patriottica»). O quella della «soldataglia» nei confronti della «signora dell’Oriente» Zenobia. Artemisia, sovrana di Alicarnasso – che visse a cavallo tra il VI e il V secolo a.C. e che ebbe il grado di comandante della flotta di Serse nel corso della Seconda guerra persiana (480-479 a.C.) – è collocata «poco cavallerescamente» da Ammiano Marcellino tra «le donne che vendono e dispensano il sesso». Del tutto ingiustamente. Quanto a Zenobia, regina del monarcato di Palmira (nel III secolo dopo Cristo) – che, prima di soccombere, terrà in scacco tre imperatori romani – «non poteva certo essere rozza». Anzi la sua cultura doveva essere addirittura eccezionale, «tanto più», scrive Braccesi, «per una figlia del deserto seppure di elevata classe sociale».
Particolarmente interessante il capitolo dedicato a Clodia – vissuta nel I secolo a.C. – figlia di un console (Appio Claudio Pulcro) e consorte di un altro console (Quinto Metello Celere). Nonché sorella di Clodio del quale – rimasta vedova di Quinto Metello Celere – «seconda l’operato eversivo nell’estremo crepuscolo delle istituzioni repubblicane, scosse dalle ambiziose contese tra tre signori della guerra, Cesare, Pompeo e Crasso». Clodio – favorito da Cesare, nemico di Pompeo, avversato da Cicerone ma osannato dal popolo di Roma – divenne nel 58 a.C. un personaggio politico di prima grandezza. Passarono sei anni e fu barbaramente ucciso.
La sorella Clodia visse ancora a lungo ma fu sempre osteggiata dai nemici del fratello. Nonostante il fatto che, secondo Luca Fezzi – in Il tribuno Clodio (Laterza) – fosse stata «uno dei maggiori esempi di emancipazione femminile di ogni tempo». Danneggiata oltre misura, scrive Fezzi, da «alcune voci raccolte e amplificate da Cicerone». A detta del quale (nell’orazione In difesa di Marco Celio Rufo) si sarebbe addirittura «sbarazzata dello sfortunato marito con il veleno». Jean-Noël Robert in I piaceri a Roma (Bur) definisce «evidentemente esagerato» il ritratto che l’arpinate fa della sorella di Clodio. Il quadro che di lei fa Cicerone è, anche per Braccesi, eccessivamente «insultante», «devastante» e «va ben oltre l’arringa processuale». Da che cosa dipende questo accanimento? Braccesi ricorda che Cicerone, in un’altra stagione della vita, «aveva fatto parte della cerchia di intellettuali che corteggiavano Clodia». Suscitando proprio per questo le ire della moglie, Terenzia. Stesso discorso vale per Catullo che pur «con non minore acredine» confermò l’immagine devastante di Clodia, da lui a suo tempo amata e ribattezzata «Lesbia». Possono, si domanda Braccesi, essere considerati accusatori credibili gli amanti respinti?
Analogo discorso vale per Ovidio che era stato innamorato di Giulia, la figlia di Augusto accusata dal padre (e poi da Seneca) di impudicizia e di cospirazione. L’idea che Giulia progettasse l’assassinio del padre può «ben essere liquidata come volgarmente scandalistica» ha scritto Ronald Syme in L’aristocrazia augustea. La classe dirigente del primo principato romano (Bur). La verità, scrive Braccesi, è che fu «costretta dal padre ad almeno due matrimoni eccellenti con uomini troppo differenti da lei, usò con il genitore e con tali mariti l’arma della contestazione gestita con signorile sfacciataggine nell’infrangere le regole». A dispetto di quel che di lei riferisce Seneca – definito da Braccesi «filosofo dalla doppia morale» – Giulia «fu la prima femminista della storia nel rivendicare il corpo a proprio uso e consumo». E volendo anche «come strumento di rivalsa coniugale o di sfacciata fronda politica nei confronti dell’augusto genitore». Fu «per caparbia reazione generazionale» che contestò le leggi paterne «ostentando il lusso, le feste, la vita disinvolta, la compagnia di allegre brigate e il corteggiamento di giovani alla moda». Del resto, nella casa di Augusto «l’intreccio di parentele, tanto per sangue quanto per acquisizione, non poteva essere più promiscuo». La congiura da lei ordita che il padre denunciò nel 2 a.C. fu forse davvero pianificata. Ma non aveva nessuna possibilità di successo. Tiberio, suo ultimo marito in volontario esilio a Rodi, si adeguò ai deliri complottisti di Augusto, fece annullare il matrimonio con Giulia della quale da tempo diffidava e si guadagnò, anche così, i titoli per la successione (nel 14) all’imperatore.
Possibile che tra tante donne calunniate dell’antichità non ce ne sia una tramandata in modo positivo? Braccesi l’ha identificata nella misteriosa moglie di Ponzio Pilato, prefetto della Giudea, che, secondo il Vangelo di Matteo, sarebbe intervenuta sul marito perché fosse mite e generoso nei confronti di Gesù. Si tratta di «una donna senza nome, ma manipolata dalla tradizione». Manipolata al punto da conferirle non uno ma ben due nomi, «facendo di lei una cristiana capace di conseguire una tale luminosa fama da essere inserita nella famiglia di Augusto, per poi infine venire santificata».
Il nome glielo dà il Vangelo apocrifo di Nicodemo, dove è scritto che in una fase saliente del processo al Nazareno, «giunse un messaggero per Pilato da parte di sua moglie Procla» che, dopo un sogno «spaventoso», suggeriva al marito: «Continua a non concedere che venga fatto del male a Gesù, uomo buono». Questo attribuirebbe alla consorte di Pilato una «labile patente di cristianità» che, però, è stata sufficiente perché fosse venerata, come Santa Procula, nella Chiesa greco-ortodossa (con celebrazione il 27 ottobre) e in quella etiope ortodossa (il 25 giugno).
Ma la moglie di Pilato si arricchisce nella tradizione di un secondo elemento onomastico: nella seconda lettera di San Paolo a Timoteo viene suggerito per lei il nome di Claudia. All’epoca veniva chiamata Claudia, fa notare l’autore, una liberta che, come ex schiava, assumeva «un nome derivato dal gentilizio del padrone che l’aveva liberata, vale a dire da un membro degli infiniti rami della gens Claudia». Cioè alla stessa famiglia di Tiberio, l’imperatore che abbiamo precedentemente incontrato come figlio adottivo di Augusto e nello stesso tempo suo genero per averne sposato la figlia Giulia.
Così, di apocrifo in apocrifo, «la si trasforma in prole adottiva di Tiberio, presentato come benevolo e misericordioso nei confronti di una figlia dell’ex moglie, la cospiratrice Giulia». Una figlia «nata in forma illecita e clandestina nell’isola dove era stata confinata per la sua presunta dissolutezza». In questo modo Tiberio diventa un «pio benefattore» e la figlia adottiva una santa «a dispetto delle conclamate ed esecrate lussurie della madre». Si potrebbe però pensare che questo sia stato un modo di riscattare non già una delle tante donne maltrattate dalla storia, bensì l’imperatore ai tempi del quale il Cristo fu crocefisso.