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 2022  marzo 07 Lunedì calendario

Intervista a Beppe Vessicchio


Maestro Vessicchio, è più rischioso il palco di Sanremo o un tour di interi mesi con Le Vibrazioni?
«Ah, che discoli».
Uno come lei, barba affilata e modi d’altri tempi, che viaggia assieme uno spericolato come Francesco Sarcina e alla sua band. E la vostra tournée è stata lunga.
«Le hanno provate tutte per scandalizzarmi. Una sera vengono a prendermi con il furgoncino. Sgommata, si apre la portiera laterale, spunta Sarcina con le braccia allargate come un diavoletto e, dietro, una spessa coltre di fumo».
Che non era di sigaretta.
«Penso proprio di no».
In teatro poi è stata una serata «stonata»?
«Ha presente l’effetto del fumo passivo?».
Lei fuma?
«Non potrei permettermelo, ho 65 anni ma polmoni non perfetti».
Perché?
«Sono nato e cresciuto a Bagnoli, papà era un funzionario dell’ex Eternit. Amianto dappertutto. Stavamo in un comprensorio di palazzine, quattro famiglie: i superstiti oggi sono pochi. Io, mio fratello e mia sorella giocavamo con le vasche d’amianto. Poi c’erano anche gli aghi di ferro dell’Italsider: noi bambini ci divertivamo a riempire dei sacchi di terriccio e poi a passarci sotto dei magneti. Vedevamo gli aghetti».
Lei ha preso il Covid, qualche settimana fa. Ha avuto paura?
«Diciamo che i miei polmoni non sono sanissimi. Papà è morto per complicazioni respiratorie, mia madre di tumore».
E la musica come è entrata in quella casa, «foderata di amianto», come dice lei?
«Noi siamo cresciuti con la musica. Canzoni napoletane da mettere sul giradischi la domenica pomeriggio, quando venivano le zie. Un fratello che cantava sin dal mattino. Io che volevo suonare la chitarra. Ma allora al Conservatorio non c’era il diploma per chitarra, così i miei mi iscrissero al Liceo Scientifico. Però scoprii che potevo frequentare il Conservatorio da uditore: non persi nemmeno una lezione sulle tecniche di direzione d’orchestra. Ero diventato amico di un custode che voleva diventare paroliere, gli davo una mano con i testi e lui mi facilitava l’ingresso, mi indicava gli orari giusti».
Forse senza l’obbligo degli esami si sentiva più libero nell’approccio alla musica.
«Proprio così. Mi ricordo che c’era Enzo Avitabile che studiava il flauto. Per lui e per tutti i professori ero una specie di curiosissimo abusivo».
Che musica le piaceva?
«Vede, molti si chiedono perché i cantautori napoletani siano così venati di blues, rock o jazz. Io ho una mia idea: nel porto di Napoli, negli anni Settanta e Ottanta, c’era un giornalaio che metteva da parte le riviste di musica americana destinate ai marinai statunitensi della vicina base Nato. Anche grazie a loro e ai loro dischi sono nate certe sonorità. Pensi a Pino Daniele. Noi amavamo tutto quello che veniva dal mare e così quando ascoltai per la prima volta Sérgio Mendes con Mas Que Nada capii che a Napoli c’era un potenziale enorme. Non solo per questa commistione tra la canzone napoletana e le sonorità d’Oltreoceano, ma anche per un legame più impercettibile con alcune “repubbliche marinare” come Genova».
Un flash: Fabrizio De André che canta «Don Raffaè», brano su Raffaele Cutolo.
«Precisamente. Oppure pensi a O frigideiro di Bruno Lauzi, che prendeva le mosse dal portoghese. Oppure ancora, per andare sul personale, la mia lunga collaborazione con Gino Paoli».
«Ti lascio una canzone» l’ha scritta lei.
«Conobbi Gino a casa di Maria Pia Fanfani, una cena piena di gente, c’era anche Stefania (Sandrelli, ndr.). Ci sistemammo nella stanza dei cappotti, gli feci ascoltare due miei brani. Concordammo sul migliore e quando io poi gli dissi “Bene, è fatta, lavoriamo assieme?” lui si alzò e, allontanandosi, mi rispose “No, manco so chi sei, non ti ho ancora baciato in bocca”».
Caratteraccio?
«Gli voglio bene. Gino ha una pallottola conficcata nel cuore eppure quando poi iniziammo a lavorare assieme e ci isolavamo a Ischia per giorni interi, lui beveva whisky e si immergeva in mare per oltre tre metri. Uomo fortissimo».
Perché poi lei ha studiato architettura?
«Perché quello che davvero mi interessa è il senso delle proporzioni, dell’armonia. È la prima cosa che cerco nella musica e forse anche nella vita. Ho bisogno di equilibrio, così come ho bisogno di avere vicino mia moglie».
Enrica Mormile, conosciuta a vent’anni.
«E ci siamo sposati dodici anni dopo, faccia lei. Ci siamo incontrati e riconosciuti subito, ma abbiamo aspettato. Volevamo capire, sentire. La scienza studia principalmente il cervello, ma noi siamo fatti di tante altre cose. Per esempio, se mi stacco qualche ora da mia moglie poi ho bisogno di sentirla al telefono, ma non per senso del possesso: è per recuperare una parte di me».
Le Corbusier o Frank Lloyd Wright?
«Le Corbu mi affascina per il senso sottile dell’equilibrio, ma Wright esalta l’unicità di qualcosa, che sia una casa o un individuo. Prenda la Casa sulla cascata: è unica. Io penso che nella musica come nella pittura o nella letteratura ci sia bisogno di una nota che fa la differenza. Diffido delle persone o dei sistemi che tendono a livellare o a ghettizzare. Altro esempio: alcuni dei miei professori dell’università erano legati al progetto delle Vele di Scampia: noi lo vedevamo come una ghettizzazione e ci opponevamo. Quante volte abbiamo occupato l’università».
In ogni caso, poi lei non ha fatto l’architetto ma il musicista. Collaborazioni prestigiose, scrittura di testi e musica, arrangiamenti.
«E cabaret per diversi anni con i Trettré. Ma poi i successi musicali con artisti come Vanoni, Paoli e molti altri hanno deciso per me».
Vanoni, un altro carattere mica facile.
«Eh, Ornella è una grande artista e ci teneva a rimarcare la sua statura. Dopo ogni concerto io scappavo e evitavo il suo camerino perché sapevo che ci sarebbe stata una sfuriata. Una volta lei stava provando, io continuavo a interromperla finché lei mi lanciò una scarpa. Esasperata».
Non tutti sanno che il suo primo vero Sanremo, cioè alla direzione d’orchestra, è stato nel 1990 insieme a Mia Martini.
«Lei cantava La nevicata del ‘56. Mimì, che artista straordinaria. Spessore, profondità. Una volta, in uno studio di Roma, sentii una voce intensissima: era lei che cantava Almeno tu nell’universo. Cominciammo a lavorare assieme e lei, dopo la lunga assenza dalla musica, era come rinata. Ricordo una serata sulla terrazza della mia casa romana: feci arrivare un carico di mozzarelle solo per lei. Era felice, voleva cantare».
E lei, maestro, è felice?
«So far fruttare i momenti difficili. Negli anni ho imparato a seminare durante le cadute. Come fanno i contadini, mondo che conosco bene perché lo frequento da tanti anni (Vessicchio è anche produttore di un vino particolare, che invecchia con la musica, in collaborazione con una azienda vinicola biodinamica di Pietranico, in Abruzzo, ndr.). I contadini sanno approfittare degli inverni, io so sfruttare le fasi calanti».
E questa per lei che fase è?
«Fertile. Sto studiando zone d’ombra della musica mai approfondite, per esempio le connessioni con la fisica. Il fatto che la musica non si percepisce solo con le orecchie. La musica trova altri canali e crea nuovi equilibri. A giugno avrò l’onore di dirigere l’orchestra per i cento anni della Cattolica, c’è un progetto con i Laboratori Nazionali di Fisica del Gran Sasso».
E per Alexa, assistente personale intelligente, lei è il Presidente della Repubblica ideale.
«Se lo dice lei».
Che cosa farebbe se, per assurdo, venisse eletto capo dello Stato?
«Mi batterei per introdurre la musica sin dalle scuole elementari. Perché conosco il valore taumaturgico della musica, so che cosa è in grado di fare. Eppure vedo che in tutti i modi si cerca di alleggerire i nostri ragazzi dall’impegno, come se si temesse di affaticarli. Via il greco, meno latino, la storia dell’arte che non serve: io credo invece che bisogna insegnargli la complessità».
Lo dice lei che è due volte bisnonno.
«Ma ha notato quanto si sono impoverite le canzoni? Non parlo solo dei temi, anzi. Parlo del linguaggio, della metrica, della musica. Non sono canzoni brutte, sono canzoni meno ricche».
La sensazione, guardando le classifiche, è che si produca musica per bambini.
«Sì e le faccio notare un’altra cosa: l’uso dei verbi al futuro, molto frequente. Dipende dal fatto che si cerca l’impostazione dell’inglese, che ha molti monosillabi, parole brevi e effetto tronco. Per esempio, loro hanno la parola spring, noi pri-ma-ve-ra. Dunque cerchiamo un’altra parola, che sia più tronca. Ed ecco l’uso del futuro».
Allora meglio l’operazione Fedez-Orietta Berti, un recupero della canzone anni 60?
«Ma certo. Anzi, io amo i rapper, perché, vivaddio, ci hanno restituito una sorta di verismo. Ci stavamo invischiando in un tempo sospeso tra la nostalgia e il futuro. Ma il punto è un altro: la complessità fa paura, il linguaggio più articolato spaventa. Prendiamo la parola immunizzare: tutti i grandi scienziati dicono che l’immunità perfetta non l’abbiamo ancora trovata, eppure continuiamo a usare quel termine come sinonimo di difesa totale e sa perché? Perché non abbiamo voglia, tempo, coraggio intellettuale di trovare una parola diversa. Così nelle canzoni».
Per l’Italia è sempre rassicurante continuare a sentire la frase «dirige l’orchestra il maestro Beppe Vessicchio».
«Posso aggiungere una cosa sola? Io spero che in un tempo dominato dalle ricerche scientifiche – e lo dice uno innamorato della scienza – non si perda di vista il valore dell’arte. Perché, nella storia, i periodi migliori sono stati quelli in cui arte e scienza hanno camminato insieme».