Linkiesta, 7 marzo 2022
Cadere per terra a Bologna
Meno male che Matteo Lepore era impegnato con le amenità, così ho avuto tempo di riflettere su come sia successo che questa guerra abbia generato tanti picchi di ridicolaggine comunicativa.
Matteo Lepore, forse lo sapete, è il sindaco di Bologna. Potreste averlo visto nel camerino di Gianni Morandi, o alla mostra su Lucio Dalla, o in qualunque altro dei posti in cui s’instagramma. Potreste aver sentito le interviste in cui ci dice che si sposa (ma che fondamentale notizia) o che vuole far rinascere L’Unità. Potreste averlo notato ovunque tranne che mentre organizzava qualcuno che riempisse le buche o raccogliesse la spazzatura: Bologna è persino meno governata di Roma, ma il sindaco non lo invitano in tv a suonare Morandi. Converrete che è un’ingiustizia, gli tocca limitarsi a fare il pubblico invece che il chitarrista.
Se Bologna non fosse piena di buche, io domenica mattina non sarei inciampata. E non sarei rimasta un po’ lì, sull’asfalto già cantato da Dalla («Bologna, ogni strada c’è una buca»: “Dark Bologna” è del 2006, era sindaco Sergio Cofferati, non riparava le buche ma almeno non s’instagrammava), a riflettere su quel che ho visto negli ultimi giorni.
Ho visto Balenciaga far sfilare un’uscita azzurra e una gialla per concludere la sfilata, a Parigi; e ho visto un professore universitario, a Bologna, aprire una riunione su tutt’altri temi con «un pensiero solidale agli ucraini e uno di condanna alla Russia», e mi chiedevo che cosa c’entrasse, che senso avesse, è come il segno della croce quando entri in chiesa, ora in ogni riunione con più di due persone bisogna mettere a verbale che si vuole la pace nel mondo?
Ho visto un noto pastificio farmi pagare i tortellini quattro euro all’etto, e ho sentito la spiegazione sul grano dall’Ucraina che non arriva più e i prezzi che salgono, e ho pensato che a Bologna sono più sensibili alla guerra perché mangiano i carboidrati: a Milano sono tutte a dieta e i mancati approvvigionamenti non le sfiorano.
Ho visto l’internet intera sghignazzare di Elisabetta Franchi che s’instagramma davanti all’aereo d’un Four Seasons alle Maldive scrivendoci sotto «Non vi nascondo che quello che sta succedendo in Ucraina mi ha fortemente provata», e poi di Michelle Hunziker con analogo penzierino dolente, e mi è venuto il dubbio che inaccettabile non sia il penzierino dolente coi piedi a mollo, inaccettabile è che noi i penzierini dolenti li instagrammiamo dai tre stelle e nessun albergo di lusso ci permette di scroccare una vacanza in cambio di qualche cancelletto.
Ho visto i bottegai dell’Instagram fotografarsi e filmarsi mentre caricano camion di derrate per l’Ucraina, e poi il giorno dopo postare indignati perché qualcuno ha detto che la beneficenza non si fa per vanità, e mi è venuto il sospetto che il prossimo DSM debba codificare quella forma di indignazione che è l’invidia da cuoricini, la competitività verso chi trova l’equilibrio perfetto tra esibizionismo e buone cause, tra vanità e contenuti: Maldive con dolenza no, camion di derrate con allegria sì.
Ho visto l’economia dell’attenzione virare dalla pandemia alla guerra, possiamo occuparci d’una dolenza alla volta, e quindi la guerra ha fatto sparire immediatamente la pandemia ma dopo qualche giorno è sparita anche la guerra, certo che ci diciamo contriti all’inizio delle riunioni, certo che gli autori di libri con copertine gialle e azzurre sgomitano per entrare nelle vetrine solidali, ma iniziamo a cercare altro da leggere, altro da scrivere, una settimana fa mi sarebbe sembrato fuori luogo scrivere di “LOL” o di Lucio Dalla e invece ora non sembra strano a me che scrivo né a voi che leggete, non siamo mica capaci di restare stabilmente in modalità affranta se le città su cui cadono le bombe non sono le nostre.
Ho visto un articolo di trentacinque anni fa che oggi nessuna scriverebbe, forse neanche la stessa autrice. Lo scriveva Natalia Aspesi, recensendo un libro sulla Seconda guerra mondiale di Miriam Mafai: «I giorni confusi, truci, affannati, di cinque anni di guerra. Ma anche anni in cui alle donne accadevano cose straordinarie, impensabili, che le strappavano a sudditanze e a torpori, a dipendenze e a rassegnazioni, a fragilità e a irresponsabilità: assaporavano, nello sperdimento degli uomini lontani, una acre, dolorosa e in qualche modo esaltante scoperta di sé, la necessità e capacità di scegliere e decidere da sole, di organizzare con coraggio e pazienza la propria sopravvivenza e quella dei propri cari, di accedere al lavoro e al guadagno al posto degli uomini, di sentirsi nascere dentro la passione politica, ignota e remota terra maschile, di partecipare alla guerra e alla sua fine non solo come vittime disperate e innocenti ma come protagoniste coscienti, spavalde, audaci».
E poi ho guardato la comunicazione di trentacinque anni dopo, Kim Kardashian impacchettata di scotch giallo probabilmente solidale, il sindaco di Firenze che copre il David con un telo nero e l’immancabile bandiera giallazzurra, Madonna che si fotografa con un improbabile arnese giallo e blu che la fa sembrare una tifosa del Verona ma per fortuna sotto ci scrive «Stop Putin now!», almeno il puntesclamativo dirime l’equivoco.
E quindi, mentre stavo stesa a massaggiarmi le giunture scontratesi con l’asfalto, mentre i passanti sotto i portici mi osservavano senza correre a soccorrermi, mentre mi chiedevo che fine avesse fatto la solidarietà bolognese, volevano lasciarmi lì a farmi travolgere da qualche autobus, dovevo forse rotolare verso il portico con la sola forza delle mie contusioni, in quel momento ho capito. Nessuno avrebbe potuto credere che fosse solo un caso: il mio cappottino giallo, quello leggero da mezze stagioni, e la camicetta azzurra. Nessuno poteva credere che mi fossi ribaltata a causa d’una buca. Pensavano fossi un’installazione pacifista nei colori ucraini. Anzi: già tanto non rallentassero la passeggiata, non si fermassero a fotografarmi, non m’instagrammassero come prova del fatto che Bologna è proprio una città solidale, c’era questa tizia che ha rischiato di farsi investire pur di ricordarci i colori ucraini.