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 2022  marzo 07 Lunedì calendario

Intervista allo speleologo Francesco Sauro

Francesco Sauro è uomo da cose che non ti aspetti, di più: uno che della ricerca dell’inaspettato ha fatto una ragione di vita, perché quello che più ama è scendere sottoterra, dove nulla è come quassù. È quello che il suo maestro Giovanni Badino, che ha rivoluzionato la speleologia negli anni ’70 e ’80, ha chiamato Il continente buio: ed è così che Sauro ha intitolato il suo libro, pubblicato da ilSaggiatore, in cui ci porta a esplorare «Caverne, grotte e misteri sotterranei. Alla scoperta del mondo sotto i nostri piedi», a proposito del quale c’è una sola certezza: è destinato a sorprenderci. Sauro lo sa fin da ragazzino, quando ha iniziato a esplorare i Monti Lessini, sopra Verona: è così che, a 38 anni, è già uno degli speleologi più importanti al mondo, che in oltre quaranta spedizioni negli abissi ha mappato oltre cento chilometri di grotte. Ma siccome è uomo dell’inaspettato, oltre a esplorare e a insegnare Geologia planetaria all’Università di Bologna, collabora anche con l’Agenzia spaziale europea, cioè con chi manda persone nello spazio, lassù.
Come è iniziata questa passione per il mondo sotto i nostri piedi?
«Mio padre insegnava Geografia e Fisica all’Università di Padova ma la mia famiglia è di Bosco Chiesanuova, sui Lessini, e in queste montagne ci sono molte grotte e luoghi legati alla speleologia: uno dei più famosi è il Cóvolo di Camposilvano».
Quello che avrebbe ispirato l’Inferno a Dante?
«Leggenda vuole che Dante fosse ospite dei Cangrande della Scala, e il Cóvolo si trova in quella che era la loro zona di caccia: era utilizzato per conservare le prede, perché a 80 metri di profondità c’è il ghiaccio. Si pensa che Dante lo abbia visto, perché è il primo autore a porre il diavolo nel ghiaccio, anziché nel fuoco».
Che altri luoghi esplorava vicino a casa sua?
«C’è la Spluga della Preta, un abisso profondo che arriva a 900 metri: negli anni Venti era considerato il record mondiale, venivano da tutto il mondo a vederlo, e lo chiamarono Abisso Mussolini. Sono cresciuto sentendo queste storie, facendo passeggiate col mio papà e vedendo le imboccature delle grotte... Facevano paura, ma c’era tanta curiosità».
E poi?
«Poi ho trovato un cugino come compagno di avventure, e a 10-11 anni ho iniziato a entrare in queste grotte. A 13, come regalo, mio padre mi ha iscritto a un corso con il Gruppo speleologico padovano del Cai. E una settimana prima di compiere 16 anni ho realizzato il mio sogno: la Spluga della Preta. Ero ossessionato dall’idea di entrare e vederne il fondo... Sono andato con un gruppo di speleologi di Padova».
È una cosa comune?
«No. Non è una discesa facile, per scendere e risalire devi rimanere 33 ore senza dormire...».
Come è diventato il suo lavoro?
«A 18 anni sono stato eletto presidente del club di Padova, poi mi sono iscritto a Geologia, ho fatto il dottorato a Bologna e sono entrato nell’Associazione La Venta, di cui da quest’anno sono anche presidente, che si occupa di esplorazioni all’estero. E, a fine dottorato, sono stato avvicinato dall’Esa».
Non è strano che lei lavori con gli astronauti? Che cosa fa?
«Assolutamente. Tengo un corso che li porta in grotta, per fare una esperienza di missione in un ambiente analogo allo spazio. Lo abbiamo già fatto per 36 astronauti della Nasa, dell’Esa e anche giapponesi, russi, canadesi e perfino un cinese».
Per le spedizioni si viene pagati?
«No. La Venta è una associazione non profit, che organizza progetti di ricerca in vari Paesi, grazie a sponsor o finanziamenti, a volte con i governi, o a collaborazioni, per esempio con National Geographic, ma nessuno è pagato per svolgerli...».
Bisogna andare per forza lontano?
«No, anzi, l’esplorazione delle grotte si può fare anche vicino a casa, come dimostra la Spluga della Preta. Durante il liceo ho girato moltissimo e ho trovato la grotta più lunga delle Dolomiti, i Piani eterni: non abbiamo ancora finito di esplorarla perché è molto complessa, abbiamo mappato 40 km per 1.050 metri di profondità».
Lei mappa le grotte?
«Certo. La nostra è una esplorazione geografica: si crea una topografia, a volte in 3d, che poi va messa in relazione alla superficie esterna».
Quali sono le grotte più affascinanti?
«Ci sono le grotte carsiche classiche, ci sono quelle del Tepui in Venezuela, scavate nel quarzo da milioni di anni, e ci sono quelle effimere nelle calotte di ghiaccio della Groenlandia, poco studiate, eppure molto legate al cambiamento climatico. Oppure quelle formate dalla lava, o le grotte dentro ai vulcani, dove l’eruzione può creare dei tunnel, come sull’Etna, o in Islanda. O a Lanzarote, un’isola vulcanica dove ci sono tubi lavici enormi e magnifici, simili a quelli che potrebbero esserci sulla Luna, o su Marte».
A proposito, lei scrive che ci sono luoghi sotterranei che hanno visto meno persone di quante abbiano calpestato il suolo lunare...
«Eh sì. Uno è il Boj Bulok, in Uzbekistan, una grotta difficile da esplorare, profonda 1.400 metri dove, per arrivare al fondo, c’è un cunicolo di circa 9 km. Servono giorni per percorrerlo ed è per questo che ci sono state più persone sulla Luna che sul fondo del Boj Bulok... E lo stesso vale per il fondo dei Piani eterni. È il concetto di distanza relativa».
Che significa?
«La tecnologia ci permette di andare sulla Luna o sulla Stazione spaziale in poche ore, mentre per esplorare certe grotte la tecnologia non ci aiuta, servono il nostro corpo e molti giorni: perciò i luoghi più lontani, sulla Terra, sono certe zone remote di qualche grotta».
C’è anche l’Inferno, laggiù?
«In Messico, la colata dei cristalli di Naica è un luogo caldissimo, dove la temperatura è di 50 gradi e ci sono degli straordinari cristalli giganti di selenite, alti tredici metri. Un mondo sotterraneo inesplorabile, ma che esiste, ed è sotto i nostri piedi. Verne aveva visto posti del genere con la fantasia, ma sono reali».
Che cosa si porta in valigia?
«Le luci, fondamentali. L’attrezzatura per salire e scendere, le corde, i trapani per i chiodi, i droni, i laserscanner e le tecnologie di mappatura in 3d, i respiratori e le attrezzature refrigeranti se si va in una grotta come Naica, i ramponi e le picozze in Groenlandia, e poi tute particolari a seconda della temperatura, i sacchi a pelo per l’umidità e delle scarpe speciali, simili a quelle degli astronauti, per muoversi in sicurezza su superficie viscide e bagnate».
Quando entra che cosa trova?
«Dipende. Se la grotta è sconosciuta e nessuno ci è mai entrato, nessuno lo sa, ed è proprio questo il punto: ogni curva e ogni passaggio ci portano verso qualcosa di ignoto, è una vera esplorazione, in cui bisogna stare attenti all’ambiente circostante, valutare i rischi, la stabilità delle rocce, le condizioni idriche, la presenza di anidride carbonica o altri gas... Il fascino è quello: l’esplorazione, il non sapere che cosa troverai».
Com’è il buio?
«Bisogna partire dal presupposto che la grotta è totalmente buia, di un buio assoluto. Senza luce non si vede niente. L’immagine della grotta è quella che illuminiamo man mano, creando una mappa in cui ogni ombra è un punto di domanda, magari un passaggio che potrebbe portare chissà dove».
E gli odori?
«Non ci sono odori in grotta, perché è fatta di roccia e acqua. E anche il silenzio è quasi assoluto. I pochi rumori sono legati all’acqua che scorre o ai nostri movimenti».
Che colori ci sono sottoterra?
«Dipende. Nelle grotte di ghiaccio passa la luce, quelle in quarzo sono rosa-arancio, quelle di sale bianche, quelle di lava nere».
Le più suggestive?
«Quelle di quarzo, spettacolari. Ci sono anche laghi con acque a volte rosse per i tannini, o viola iridescente, o blu, per via dei batteri che producono questi colori...».
Oltre ai batteri ci sono animali?
«La maggior parte della biodiversità della terra, il 30-40 per cento, si trova nel sottosuolo, ma è piccola: insetti, crostacei, animaletti nell’acqua, qualche volta i pipistrelli o il proteo, un anfibio tipico del Carso, che ha perso gli occhi e la pigmentazione e può vivere cent’anni. Di questa vita conosciamo molto poco: ogni grotta è una piccola isola con le sue forme di vita intrappolate, lì e soltanto lì».
Ha mai paura?
«Assolutamente. La paura è fondamentale per accorgersi delle situazioni di pericolo. Basta uno scricchiolio in una grotta di ghiaccio... Ma è uno strumento, non deve essere un problema. Il problema è se ti succede qualcosa, per esempio ti rompi un braccio, perché è difficile che possano salvarti velocemente. Anche se gli speleologi sono un grande esempio di mutuo soccorso, e noi italiani siamo fra i migliori al mondo».
Come descriverebbe il mondo sotterraneo?
«Come un continente frammentato, dei cui confini non abbiamo percezione, in gran parte inesplorato e labirintico. Quello che lo descrive è questo: è difficile da immaginare ma, nella maggior parte dei casi, quello che si trova sotto va ben oltre la nostra fantasia».
È l’ultima frontiera dell’esplorazione?
«Sulla Terra rimangono due grandi frontiere, gli abissi e le grotte. La differenza è che, mentre per esplorare la Fossa delle Marianne serve una tecnologia elevata, per andare al fondo di una grotta del Caucaso no, chiunque abbia capacità fisiche e mentali può farlo. E poi c’è lo spazio, dove però pochi possono andare, e serve un’altissima tecnologia».
Servono grandi capacità?
«Sì. Molta esperienza, che si fa sul campo. È difficile insegnare ad andare in grotta: devi andarci».
Quanto dura una spedizione?
«Da 10 giorni a tre settimane. La mia più lunga è stata nei Piani eterni».
La più pericolosa?
«Direi i Mulini glaciali della Groenlandia, dove tutto è in movimento, senti le crepe che si propagano lungo le pareti, cadono blocchi di ghiaccio: è un luogo effimero, è meglio starci poco».
E dove sogna di andare?
«Alle Galapagos, dove ci sono grotte vulcaniche in cui nessuno è mai entrato, e in Antartide».
Certe grotte hanno nomi «mitici».
«Sono luoghi che accendono l’immaginazione... Vedi un buco profondo nella selva del Chapas e diventa l’ombelico del mondo, i Mulini della Groenlandia sono i Malik, una divinità del profondo. Come quando l’uomo primitivo entrava nelle grotte con la sua torcia e provava paura e fascino, anche oggi la caverna è un luogo mitologico».
I suoi abissi del cuore?
«Sicuramente Imawarì Yeuta, in Venezuela, la casa degli dèi, il posto più incredibile che abbia mai visto, e il labirinto dei Piani eterni bellunesi, che rappresenta la complessità del mondo sotterraneo».
Si pensa più all’inferno, ma qual è il paradiso degli speleologi?
«Ce ne sono vari, luoghi piacevoli come il Sud dello Yucatan, o il Chapas dove ci sono grotte bellissime ma facili da esplorare, o Cuba, dove puoi entrare in grotta in maglietta. E i sistemi giganteschi del Borneo, il parco giochi degli speleologi».
Uno entra nella grotta e che cosa prova?
«All’ingresso della grotta c’è luce, poi c’è un passaggio fra luce esterna, ombra e buio e quello è un luogo magico, la soglia: è da lì, quando superi la penombra, che inizia il viaggio verso l’oscurità assoluta, ed è molto emozionante».
E quando ne esce?
«Anche quello è un momento magico, i due poli di un rito di iniziazione... Quando esci sei diverso e apprezzi il mondo in modo diverso, senti i profumi, vedi i colori, è un momento catartico; ma esci col corpo, mentre la mente è rimasta giù».
Ma fuori sta bene?
«Sì, certo, sto bene fuori: siamo fatti per la superficie. Solo che a volte sento l’attrazione per quel mondo che ho lasciato dietro di me, penso a chissà che cosa avrei potuto trovare».