la Repubblica Il Messaggero, 7 marzo 2022
In morte di Pino Wilson
Angelo Carotenuto, la Repubblica
Successe a Sunderland, a Doncaster, a Wolverhampton, a Londra per una partita contro l’Arsenal nel vecchio stadio di Highbury e pure davanti al mare di Ipswich. Ogni volta che la Lazio volava in Inghilterra, Pino Wilson si trovava a fissare l’orizzonte e a fare i conti con una tentazione, scappare, salire su un treno, esplorare. Desiderava vedere finalmente Darlington, almeno una volta, su al nord, dove tra carbone e acciaio erano diventati famosi per la lana e per la prima ferrovia al mondo. Voleva risalire alle radici, scoprire la sua culla, era nato là e non c’era tornato mai. Era di quella Lazio il volto della saldezza, portava la fascia da capitano, ma aveva pure lui le sue malinconie. Suo padre Denis, inglese, aveva fatto il militare a Napoli, la città dove si era innamorato di Rachele. Dentro uno spogliatoio che aveva assegnato a ciascuno un ruolo, Wilson era il dominus d’ogni contesto, era l’altra faccia di Chinaglia, la sua spalla forte, almeno fino alla crisi post scudetto che portò Giorgione in America e la squadra dei miracoli a smembrarsi. Luigi Martini aveva la parte dell’oppositore, Sergio Petrelli quella dell’irregolare che aveva portato le pistole dentro lo spogliatoio, Renzo Garlaschelli il viveur, Mario Frustalupi il filosofo socialista, Felice Pulici un buono agostiniano, Franco Nanni il timido, Vincenzo D’Amico la recluta, Giancarlo Oddi l’ingenuo, Mario Facco una specie di fool shakespeariano. Wilson era invece per tutti il Baronetto, per altri il Padrino. Proiettava questa posa di stabilità e di fermezza pure sul campo. Quando Gianni Brera se ne avvide, di lui scrisse: «La difesa ha scoperto in Wilson un regista sapiente, non che sia gran cosa l’anglo-napoletano, in fatto di acrobazia: è anche miope e sulle palle spioventi da lontano non si sente a suo agio, come è ovvio: però nel tackle è tempestivo e qualche volta maligno. Nei disimpegni tocca di piatto destro con ricercata eleganza».
Wilson, morto ieri a 76 anni, è stato probabilmente l’incarnazione più precisa della lazialità, quel sentimento individuato da molti dei suoi tifosi eccellenti come un orgoglio privato, silenzioso, distinto, una sfera spesso fraintesa e impastata di cliché, ma socialmente più disomogenea di quanto appaia in superficie. La Lazio anni 70 divisa in due combriccole, due gruppi che si svestivano in due stanzoni separati, è allora fortemente evocativa di un destino e di una identità. La lazialità è una passione alimentata dal tormento, da un urrà contabile complesso di inferiorità dinanzi all’egemonia romanista. Wilson ne è stato un drappo. Amava gli scherzi, meglio se impensabili. Ne fece uno atroce al dottor Ziaco nascondendogli la macchina, facendola scivolare sul fondo della piscina dell’hotel a Pievepelago, dove la squadra d’estate andava in ritiro. Amava la leggerezza, ma aveva portato dentro di sé per molti anni il peso degli errori commessi e pagati, la condanna del calcioscommesse a cui aveva aggiunto una espiazione ulteriore, una specie di esilio dal suo mondo.
Come la maggior parte dei compagni di quella squadra irragionevole, irripetibile, aveva ceduto alla fascinazione delle armi, una 38 special di cui era arrivato a studiare le minuzie, il funzionamento del tamburo, il peso del proiettile, il percussore. Un giocatore fuori dal canone, un universitario, si era iscritto a giurisprudenza, laureandosi poco dopo lo scudetto. Tesi: la relazione tra l’ordinamento sportivo e la giustizia ordinaria. Alla discussione lo aveva accompagnato una delle due figlie di Maestrelli, quel Tommaso che gli aveva consegnato la fascia e gliel’aveva confermata anche nei momenti di burrasca, il più difficile forse nell’ottobre del 1971 dopo una sconfitta a Terni in B. Avevano tutta la folla contro e trovarono i loro nomi scritti su dei bidoni dell’immondizia, compresi i numeri di maglia dall’uno all’undici. Poi cominciò l’ascesa irresistibile, una candela bruciata tra il 1973 e il 1977. In politica si definiva andreottiano, ma erano i tempi in cui in Italia una buona fetta di elettori del Movimento Sociale non osava dirlo. Senza Wilson, la Lazio ha perso la sua coscienza storica. Se n’è andato con un rimpianto che qualche anno fa trovò la forza di confessare: «Mi piacerebbe una volta sognare Re Cecconi».
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Andrea Sorrentino, Il Messaggero
Il capitano con la fascia rossa al braccio, quando tutti l’avevano bianca. Il libero con il numero 4, mentre gli altri avevano sempre il 6. I tackle in scivolata col pallone arpionato all’attaccante, all’epoca una raffinatezza difensiva per pochi, e l’Olimpico impazziva. Il naturale carisma. I modi eleganti, la erre blesa che rivelavano i natali borghesi. La laurea in Giurisprudenza. Tutto lo rendeva un leader per definizione, infatti era il Capitano, e lo fu per 309 volte, in tutta l’incredibile epopea della Lazio degli anni 70: un manipolo di uomini che vide, visse, vinse e perse cose, che solo loro possono sapere. Stavolta, anziché dare l’esempio, Pino Wilson ha seguito quello di tanti suoi compagni di un’avventura unica, segnata dallo scudetto del 74 e da un destino cinico e baro: ha spento la luce all’improvviso e se n’è andato, di colpo, a 76 anni, lasciando tutti sgomenti, raggelati, piangenti, l’altro giorno era qui e gli parlavano, lo ascoltavano. Invece è morto sabato notte per un ictus, il grande capitano, simbolo, coscienza critica, anima della Lazio di Maestrelli e oltre. Ancora giovedì aveva effettuato il quotidiano intervento a Radio Incontro Olympia, poi venerdì aveva fatto sapere di essere febbricitante dando appuntamento al weekend; ma le sue condizioni si sono velocemente aggravate, e nella notte tra sabato e domenica la terribile notizia. Lo piange tutto il mondo laziale, che ieri ha fatto arrivare messaggi da ogni dove, a cominciare dal club, poi tifosi e compagni di squadra, come Luigi Martini, autore di uno struggente addio. Giuseppe Wilson, Pino per tutti, Pinotto a Napoli dove visse bambino e ragazzo, al Vomero, in famiglia agiata e studi classici, era figlio di un ufficiale inglese della Nato a Napoli, e di una napoletana, a cui Pino volle regalare la laurea, presa a 30 anni. Cirio la sua prima squadra, poi l’Internapoli dove nel 1967 conobbe Giorgio Chinaglia, avviando un legame indissolubile. Nel 1969 Enrico Flamini li segnala a Juan Carlos Lorenzo, e arrivano a Roma. Wilson giocherà 392 partite nella Lazio. Ne diventa subito capitano, libero elegante e tempista, le uscite palla al piede da situazioni intricate, abile nei tackle e di testa anche se era alto 1,73, protagonista di un decennio inimitabile. Una prima retrocessione in B, la risalita, la folgorazione di Tommaso Maestrelli con cui creerà un altro legame eterno (Era il nostro pater familias), lo scudetto del 1973 che sfuma all’ultima giornata nella sua Napoli, lui ne piange a lacrimoni; lo scudetto l’anno dopo, lui che guarda Pulici mentre Chinaglia tira il rigore al Foggia, poi la fine, l’invasione di campo, ben altre lacrime stavolta, mentre il Capitano fugge nudo tra la folla. È uno dei leader del clan di Giorgio Chinaglia, contro quello dei Re Cecconi e dei Martini, in quegli anni formidabili di una squadra di pazzi scatenati, risse furibonde, i giochi proibiti con le armi, ma in campo una squadra di eccezionali combattenti uniti, che portò allo scudetto. E anche alla Nazionale, ma Wilson e Chinaglia, con Re Cecconi, rimasero vittime dei clan dei giocatori del nord, e ai Mondiali del 1974 fu azzurro tenebra, loro emarginati e l’Italia eliminata.
CADUTE E RISALITEPoi venne la stagione dei lutti che sbriciola quella Lazio, da Maestrelli, alla cui bara Wilson rimane abbarbicato nel giorno dei funerali, a Re Cecconi. Lui scappa da Chinaglia ai Cosmos, si destreggia tra Beckenbauer e Pelé, poi torna. L’ultimo lutto con la tragedia di Paparelli, nella stagione che sfocia nel calcioscommesse, dello scudetto rimasti solo lui, D’Amico e Garlaschelli. Wilson viene arrestato con gli altri il 23 marzo 1980, nello scandalo la Lazio finisce in B e Wilson prende tre anni di squalifica. Ma pochi mesi dopo la giustizia penale dichiarerà che per i reati contestati il fatto non sussiste, su tutta la vicenda rimarranno interrogativi; nel 1982 il calcio amnistia i condannati, a Mondiali vinti. Pur potendo rientrare come dg della Lazio, Wilson rimarrà fuori dal calcio, sdegnosamente autopunendosi, e per molto tempo non lo si vedrà. Poi il graduale riavvicinamento, fino alla meravigliosa iniziativa, da lui promossa con Giancarlo Oddi, del maggio 2014 all’Olimpico per i 40 anni dello scudetto, Di padre in figlio, di fronte a circa 65mila spettatori, tuttora record di presenze allo stadio. Fu la chiusura di un cerchio: il Capitano era tornato a casa sua. Perché certi uomini, certi giocatori, sono eterni. Come certi legami. Per questo è lazialissimamente giusto che Pino Wilson andrà a riposare nella tomba di famiglia dei Maestrelli, a Prima Porta, dove ad aspettarlo troverà anche Giorgio Chinaglia. Ce ne saranno, di cose da raccontarsi.
Il capitano con la fascia rossa al braccio, quando tutti l’avevano bianca. Il libero con il numero 4, mentre gli altri avevano sempre il 6. I tackle in scivolata col pallone arpionato all’attaccante, all’epoca una raffinatezza difensiva per pochi, e l’Olimpico impazziva. Il naturale carisma. I modi eleganti, la erre blesa che rivelavano i natali borghesi. La laurea in Giurisprudenza. Tutto lo rendeva un leader per definizione, infatti era il Capitano, e lo fu per 309 volte, in tutta l’incredibile epopea della Lazio degli anni 70: un manipolo di uomini che vide, visse, vinse e perse cose, che solo loro possono sapere. Stavolta, anziché dare l’esempio, Pino Wilson ha seguito quello di tanti suoi compagni di un’avventura unica, segnata dallo scudetto del 74 e da un destino cinico e baro: ha spento la luce all’improvviso e se n’è andato, di colpo, a 76 anni, lasciando tutti sgomenti, raggelati, piangenti, l’altro giorno era qui e gli parlavano, lo ascoltavano. Invece è morto sabato notte per un ictus, il grande capitano, simbolo, coscienza critica, anima della Lazio di Maestrelli e oltre. Ancora giovedì aveva effettuato il quotidiano intervento a Radio Incontro Olympia, poi venerdì aveva fatto sapere di essere febbricitante dando appuntamento al weekend; ma le sue condizioni si sono velocemente aggravate, e nella notte tra sabato e domenica la terribile notizia. Lo piange tutto il mondo laziale, che ieri ha fatto arrivare messaggi da ogni dove, a cominciare dal club, poi tifosi e compagni di squadra, come Luigi Martini, autore di uno struggente addio. Giuseppe Wilson, Pino per tutti, Pinotto a Napoli dove visse bambino e ragazzo, al Vomero, in famiglia agiata e studi classici, era figlio di un ufficiale inglese della Nato a Napoli, e di una napoletana, a cui Pino volle regalare la laurea, presa a 30 anni. Cirio la sua prima squadra, poi l’Internapoli dove nel 1967 conobbe Giorgio Chinaglia, avviando un legame indissolubile. Nel 1969 Enrico Flamini li segnala a Juan Carlos Lorenzo, e arrivano a Roma. Wilson giocherà 392 partite nella Lazio. Ne diventa subito capitano, libero elegante e tempista, le uscite palla al piede da situazioni intricate, abile nei tackle e di testa anche se era alto 1,73, protagonista di un decennio inimitabile. Una prima retrocessione in B, la risalita, la folgorazione di Tommaso Maestrelli con cui creerà un altro legame eterno (Era il nostro pater familias), lo scudetto del 1973 che sfuma all’ultima giornata nella sua Napoli, lui ne piange a lacrimoni; lo scudetto l’anno dopo, lui che guarda Pulici mentre Chinaglia tira il rigore al Foggia, poi la fine, l’invasione di campo, ben altre lacrime stavolta, mentre il Capitano fugge nudo tra la folla. È uno dei leader del clan di Giorgio Chinaglia, contro quello dei Re Cecconi e dei Martini, in quegli anni formidabili di una squadra di pazzi scatenati, risse furibonde, i giochi proibiti con le armi, ma in campo una squadra di eccezionali combattenti uniti, che portò allo scudetto. E anche alla Nazionale, ma Wilson e Chinaglia, con Re Cecconi, rimasero vittime dei clan dei giocatori del nord, e ai Mondiali del 1974 fu azzurro tenebra, loro emarginati e l’Italia eliminata.
CADUTE E RISALITEPoi venne la stagione dei lutti che sbriciola quella Lazio, da Maestrelli, alla cui bara Wilson rimane abbarbicato nel giorno dei funerali, a Re Cecconi. Lui scappa da Chinaglia ai Cosmos, si destreggia tra Beckenbauer e Pelé, poi torna. L’ultimo lutto con la tragedia di Paparelli, nella stagione che sfocia nel calcioscommesse, dello scudetto rimasti solo lui, D’Amico e Garlaschelli. Wilson viene arrestato con gli altri il 23 marzo 1980, nello scandalo la Lazio finisce in B e Wilson prende tre anni di squalifica. Ma pochi mesi dopo la giustizia penale dichiarerà che per i reati contestati il fatto non sussiste, su tutta la vicenda rimarranno interrogativi; nel 1982 il calcio amnistia i condannati, a Mondiali vinti. Pur potendo rientrare come dg della Lazio, Wilson rimarrà fuori dal calcio, sdegnosamente autopunendosi, e per molto tempo non lo si vedrà. Poi il graduale riavvicinamento, fino alla meravigliosa iniziativa, da lui promossa con Giancarlo Oddi, del maggio 2014 all’Olimpico per i 40 anni dello scudetto, Di padre in figlio, di fronte a circa 65mila spettatori, tuttora record di presenze allo stadio. Fu la chiusura di un cerchio: il Capitano era tornato a casa sua. Perché certi uomini, certi giocatori, sono eterni. Come certi legami. Per questo è lazialissimamente giusto che Pino Wilson andrà a riposare nella tomba di famiglia dei Maestrelli, a Prima Porta, dove ad aspettarlo troverà anche Giorgio Chinaglia. Ce ne saranno, di cose da raccontarsi.