Roma, 6 marzo 2022
Alcuni delitti di camorra
SCHEDA
Protagonista: Aldo Semerari
Data: 1 aprile 1982
Luogo: Napoli
Dinamica: Docente di psichiatria forense, più volte inquisito per terrorismo nero, Aldo Semerari scompare il 25 marzo del 1982: il suo cadavere, decapitato, sarà ritrovato all’interno di una Fiat 128, parcheggiata in viale Elena, a pochi metri del Municipio di Ottaviano.
ARTICOLO
Per il barbaro omicidio di Aldo Semerari, il luminare di psichiatria forense che voleva conquistare il potere con un colpo di Stato, la magistratura non è riuscita a trovare nessun colpevole.
Il 23 giugno 2000, sono stati scagionati gli unici imputati di una ventennale storia processuale che si intreccia con le trame dell’eversione nera, con i morti ammazzati della Banda della Magliana, con i segreti inconfessabili del sequestro Cirillo e con i tradimenti dei servizi segreti deviati. È stato lo stesso pubblico ministero, Salvatore Sbrizzi, a chiedere l’assoluzione per i cinque camorristi finiti sott’inchiesta, dopo il pentimento di Umberto Ammaturo: Antonio Baratto, Ciro e Pasquale Garofalo, Giovanni Monaco e Umberto Adinolfi. Erano ritenuti gli esecutori materiali del delitto, commesso su ordine proprio di Ammaturo, si disse, per punire la decisione della vittima di assumere nuovamente la difesa del padrino Raffaele Cutolo, suo acerrimo nemico.
Ma né dinamica né movente sono stati ricostruiti con sufficiente chiarezza, anzi sono rimasti in una impenetrabile coltre di ambiguità a perenne monito per quanti, troppo disinvoltamente, si avvicinano ai «buchi neri» della storia d’Italia.
L’unica certezza è la data della scomparsa di Semerari, il 25 marzo 1982, e il luogo, Napoli, dove il docente si trova per una perizia psichiatrica su un detenuto del carcere psichiatrico di Sant’Eframo, il bandito Giuseppe Montagna, che due mesi prima, nelle camere di sicurezza del Tribunale, ha ucciso con un colpo di pistola al cuore un affiliato alla Nuova famiglia e accoltellato il futuro boss di Forcella, Luigi Giuliano.
Semerari, però, quella perizia non arriverà mai a redigerla: viene visto l’ultima volta presso l’hotel «Royal», sul lungomare, dove ha preso alloggio. Già a tarda sera, se ne sono perse le tracce.
I familiari attendono ancora un giorno per denunciare la scomparsa alla forze dell’ordine. Gli inquirenti intuiscono immediatamente che la vicenda è molto seria, anche perché nel luglio dell’anno precedente, un collaboratore di Semerari, Antonio Mottola, è stato ammazzato e dato alle fiamme a Valmontone, vicino a Roma. Erano stati entrambi coinvolti nelle indagini sulla ripresa del terrorismo neofascista in Italia. Semerari, addirittura, nel marzo del 1980 era stato arrestato, perché ritenuto il «regista» della strage di Bologna. Scarcerato per mancanza di gravi indizi dopo circa un anno, il professore stava lentamente riprendendosi dalla drammatica esperienza detentiva, anche se negli ultimi tempi aveva iniziato a soffrire di sindrome depressivo-paranoica.
Nei primi tre giorni, le indagini vanno a rilento. Non ci sono spunti investigativi degni di nota. L’unica cosa che possono fare le forze dell’ordine è interrogare i parenti e i collaboratori del criminologo. Il 29 marzo arrivano due telefonate alla redazione napoletana del quotidiano «Il Mattino», che rivendicano il sequestro. Alle 13 uno sconosciuto dice: “Qui nuclei armati rivoluzionari. Aldo Semerari è stato rapito dai servizi segreti. Per ogni giorno di prigionia uccideremo un agente”. La seconda telefonata giunge alle 16:15. Una donna, con inflessione dialettale settentrionale, ripete: “Qui tribunale del popolo. Aldo Semerari è nelle nostre mani. Più tardi avrete notizie”. È chiaro, fin da subito, che si tratta di due mitomani, ma lo scrupolo impone di battere ogni possibile pista: dalla vendetta della camorra al terrorismo.
In questo stato di attesa, passano altri due giorni, durante i quali polizia e carabinieri battono palmo a palmo l’intera provincia di Napoli, in particolare la costiera sorrentina e l’area flegrea, da Bagnoli a Monte di Procida. Del professore, però, nessuna notizia. Ventiquattr’ore dopo, arriverà la svolta.
Il 1° aprile, un passante nota uno strano liquido uscire dalla portiera di una Fiat 128 rossa, parcheggiata in viale Elena, a Ottaviano, di fronte all’abitazione di Vincenzo Casillo, «braccio destro» del boss Raffaele Cutolo. Avvisa un vigile urbano, che a sua volta contatta i carabinieri.
Sul sediolino anteriore, lato guida, si trova una busta di plastica insanguinata. Contiene la testa del criminologo, mozzata con una sega. Il corpo viene ritrovato, invece, nel bagagliaio. Che si tratti del cadavere del professore è quasi certo, anche se l’identificazione diventa ufficiale soltanto alle 13.30, quando il medico legale estrae dalla tasca della giacca una tessera ferroviaria intestata ad Aldo Semerari.
Secondo i risultati delle prime analisi, la vittima è stata uccisa al quarto giorno del sequestro, strangolata – probabilmente – con una corda e poi decapitata. L’auto risulta rubata a Fuorigrotta una settimana prima ad una giovane donna.
Nelle tasche dei pantaloni, Semerari conserva 400mila lire in contanti, alcuni effetti personali e un assegno di 2 milioni, l’onorario – ipotizzano gli investigatori – dell’ultima perizia a favore di Umberto Ammaturo, il super-latitante di camorra che lo psichiatra avrebbe incontrato, il giorno della scomparsa, in un appartamento a Fuorigrotta.
È un giorno davvero infausto, quel 1° aprile 1982: in quelle stesse ore, infatti, a Roma, una collaboratrice di Semerari si spara un colpo di pistola in petto e muore in un lago di sangue. Si chiama Maria Fiorella Carrara e lavora come psichiatra nello studio del criminologo. I vigili del fuoco la trovano distesa sul letto, con a fianco la «357 Magnum» con cui si è tolta la vita. Il suicidio della giovane donna sarà attribuito al dolore per la scomparsa dei genitori, morti entrambi di tumore. Ma otto anni prima.
L’ARTICOLO SULL’UNITA’
A rendere ancora più torbida la storia del rapimento e dell’uccisione efferata di Aldo Semerari c’è un particolare, che probabilmente rappresenta la chiave di volta dell’intero episodio: il giorno dopo la scomparsa del criminologo, presso la redazione romana de “L’Unità” arriva una lettera a firma dello stesso docente, in cui si attribuisce la paternità del falso documento del ministero dell’Interno sulla trattativa tra Democrazia cristiana e camorra, per la liberazione dell’assessore regionale Ciro Cirillo, la cui pubblicazione aveva portato in carcere una giornalista del quotidiano comunista.
Ecco il testo di quella missiva: “Egregio dottor Petruccioli, non le sto a spiegare il perché di questa mia decisione. Chiaro e crudo le dico che sono io la reale e veritiera fonte fornitrice delle informazioni che Marina Maresca coraggiosamente ha sbandierato a onor del vero agli italiani: mi riferisco a quella parte di italiani che amano la patria e che mal sopportano le angherie di questo governo ladro e burattino. Sono il perito di Raffaele Cutolo e da egli ho appreso la successione degli eventi relativi al rapimento Cirillo e alle intercessioni di tal Patriarca al fine di trovare il modo più comodo (tramite la camorra) per il pagamento del riscatto e il conseguenziale riscatto dell’ostaggio. Marina non vi ha detto dell’intervento segreto del Banco di Napoli e né vi ha detto che la prima richiesta fatta dalle Br (per bocca di Cutolo) fu di pretendere un carico di armi in cambio della vita miserabile di Ciro Cirillo. Che rilasciassero Marina Maresca. La verità fa tanta paura? Aldo Semeari”.
I dubbi che solleva l’arrivo di quella lettera sono molti di più di quelli che dovrebbe risolvere, perché – come confermeranno anche indagini successive, condotte dai magistrati Felice Di Persia e Carlo Alemi – la trattativa tra Stato e camorra c’è stata, così come c’è stato l’interessamento dei servizi segreti deviati, sia civili che militari. Circostanze di cui Aldo Semerari, probabilmente, sapeva e che gli sono costate l’esistenza in vita. Pubblicato da 01 a 3/16/2009 06:17:00 PM 5 commenti: Etichette: Articoli di camorra sabato 7 marzo 2009 Il sequestro di Ciro Cirillo SCHEDA
Protagonista: Ciro Cirillo – assessore ai Lavori pubblici della Campania
Data: 27 aprile 1981
Luogo: Torre del Greco
Dinamica: Un commando di terroristi entra in azione in via Cimaglia, a Torre del Greco, e uccide l’agente di scorta Luigi Carbone e l’autista Mario Cancello. Ciro Cirillo viene rilasciato dopo 89 giorni di prigionia
ARTICOLO
Il vero mistero non è tanto il sequestro, quanto la liberazione di Ciro Cirillo, l’ex assessore ai Lavori pubblici della giunta regionale della Campania. Democristiano e uomo di fiducia dell’allora ministro dell’Interno, Antonio Gava, capo della commissione speciale per la ricostruzione delle aree terremotate dell’Irpinia, e quindi «grande elemosiniere» di Stato, finisce al centro di uno scandalo che vede coinvolti strutture di intelligence deviate, faccendieri, camorristi, politici e uomini di Governo, su cui indagheranno per anni alcuni dei più bravi magistrati italiani.
Per ottenerne la liberazione, il suo partito – la Dc – organizza una «colletta» tra gli imprenditori «amici» e paga cinque miliardi di lire, che finiranno nei forzieri delle Brigate rosse e della Nuova camorra organizzata. La malavita, in questa storia, ha un ruolo tutt’altro che marginale, perché – come accertato dalle inchieste di Carlo Alemi e Otello Lupacchini – è proprio grazie all’interessamento di Raffaele Cutolo che i brigatisti accettano di liberare Cirillo, altrimenti destinato a una sentenza di condanna a morte.
A convincere il potentissimo capo della Nco a trattare per conto dello Stato, sono dapprima i servizi segreti civili – con l’agente semplice, Giorgio Criscuolo, e il vicedirettore del Sisde, Vincenzo Parisi – e poi quelli militari – con i generali Giuseppe Santovito, Pietro Musumeci, il colonnello Giuseppe Belmonte e l’agente Francesco Pazienza – che gli offrono, in cambio della sua «leale» collaborazione, pieni poteri nei trasferimenti carcerari, la possibilità di gestione degli appalti per la ricostruzione del dopo-sisma, una perizia a lui favorevole per insanità mentale e tanti altri piccoli e grandi privilegi, oltre a una montagna di soldi. Cutolo, però, gioca al rialzo e non si impegna direttamente nelle trattative finché autorevoli esponenti della Democrazia cristiana non lo rassicurano sulla serietà delle offerte. Le indagini della magistratura hanno identificato in Arnaldo Forlani, presidente del Consiglio, e in Flaminio Piccoli, segretario scudocrociato dell’epoca, i «registi» dell’intera operazione. Tranquillizzato da garanzie di questo calibro, Cutolo accetta di intervenire, incaricando il suo «braccio destro», Vincenzo Casillo, di attivare i contatti con i terroristi rossi.
Nelle settimane successive, il padrino di Ottaviano riceve nel carcere di Ascoli Piceno camorristi latitanti (oltre a Casillo, anche Corrado Iacolare), politici, «007» e ambasciatori delle Br, con cui pianifica i dettagli dei negoziati e chiude l’accordo: Cirillo sarà liberato in cambio di un ricco riscatto. Racconta Raffaele Cutolo, nel corso di una udienza: «L’onorevole Antonio Bassolino mi accusa di avere rapporti con i servizi segreti. Dice il falso. L’unica volta che io ho avuto contatti con i servizi segreti è stato per liberare il dottor Cirillo. Hanno fatto la corsa… il Sisde e il Sismi e non solo loro... anche tutti gli altri... facevano a gara a chiedere la mia collaborazione... mi hanno buttato sul tavolo tanto di quel denaro. Otto giorni prima del rilascio di Cirillo, uno dei miei che era in libertà – Marcantonio, si chiamava – mi spedì ad Ascoli Piceno un telegramma. C’era scritto: “Otto giorni, e Cirillo sarà libero”. Io chiamai Enzo Casillo e gli dissi: “Tié, questo è il telegramma, dallo a chi lo devi dare”… Ci fu una riunione ad Acerra vicino a Napoli. C’era Francesco Pazienza che parlava a nome di Flaminio Piccoli. Implorava un nostro intervento. Casillo allora tirò fuori il telegramma e gli disse: “Abbiamo già risolto tutto, ecco qua: otto giorni e riavrete Cirillo vivo”. Se Cirillo è vivo, lo deve a me...».
Il resto del racconto vive nella memoria del film “Il camorrista” di Giuseppe Tornatore: la liberazione dell’ostaggio, nei pressi del carcere di Poggioreale, viene accompagnata da questo comunicato delle br: «Abbiamo espropriato al boia Cirillo, alla sua famiglia e al suo partito di affamatori, alla sua classe di sfruttatori, un sacco di soldi». A ritrovarlo, in uno stato di semi-coscienza, è una pattuglia della polizia stradale che lo accompagna, a sirene spiegate, verso la Questura, dove lo attende il magistrato per il primo interrogatorio. Una volante della polizia, però, ferma la corsa della pattuglia, prende in carico Ciro Cirillo e lo porta, a tutta velocità, verso casa, dove nel frattempo sono giunti sia Gava che Piccoli. Quando il magistrato, Libero Mancuso, arriverà all’abitazione dell’assessore a Torre del Greco, incrocerà i due politici sul pianerottolo che stanno andando via. Che cosa si siano detti, quali segreti abbiano deciso di condividere i protagonisti di questa vicenda, probabilmente si saprà soltanto quando saranno resi noti, alla sua morte, i quaranta fogli dattiloscritti che Cirillo ha consegnato a un notaio.
Soltanto ventisette anni dopo, l’ex assessore riuscirà a incontrare Carlo Alemi, il magistrato che per primo aveva intuito la trattativa tra Stato e Antistato e che, per questo motivo, era stato perseguitato dalla politica e dichiarato, addirittura, «fuori dal circuito costituzionale», per dirgli queste poche, semplici, parole: «Lei è un magistrato onesto».
(Pubblicato sul quotidiano “Il Roma") Pubblicato da 01 a 3/07/2009 09:45:00 AM 2 commenti: Etichette: Articoli di camorra martedì 3 marzo 2009 La scomparsa di Antonio Bardellino
SCHEDA
Protagonista: Antonio Bardellino
Data: 26 maggio 1988
Luogo: Bujos (Brasile)
Dinamica: I pentiti casalesi raccontano che è stato ucciso
a martellate, ma il suo corpo non è mai stato
ritrovato
ARTICOLO
Quello del boss Antonio Bardellino è il più clamoroso caso di «lupara bianca» della camorra campana. Ufficialmente, il padrino di San Cipriano d’Aversa è morto nell’ultima settimana di maggio del 1988, ammazzato da Mario Iovine, suo ex uomo di fiducia, e sepolto in qualche sperduto angolo della costa brasiliana. Il suo corpo, però, non è mai stato ritrovato, malgrado gli enormi sforzi degli investigatori. E c’è stato addirittura chi – come il pentito di Cosa nostra, Tommaso Buscetta, e l’ex capo del Sismi, il generale Cesare Pucci – abbia messo in dubbio la ricostruzione stessa dell’omicidio, fino a immaginare una diversa conclusione del «giallo» legato a Bardellino. Il futuro capo del clan dei Casalesi riceve il primo mandato di cattura per associazione di stampo mafioso nel 1978, ma riesce a darsi alla macchia. Viene arrestato, la prima volta, il 2 novembre del 1983, quando – ormai – la magistratura lo ha già indagato per traffico internazionale di stupefacenti, estorsione e strage. Gli agenti della Criminalpol e della polizia spagnola lo bloccano in un bar, a Barcellona, dove era giunto da pochi giorni, proveniente dalla Francia, su indicazione di un poliziotto corrotto. Era braccato, il padrino, nei 134 Paesi aderenti all’organizzazione internazionale di polizia criminale. Soltanto quella «soffiata» gli aveva permesso di rimanere in libertà qualche altro giorno ancora. Il giorno dopo, tra l’incredulità dei magistrati e degli uomini delle forze dell’ordine italiani, viene rilasciato dal tribunale dietro il pagamento di una cauzione da 50 milioni di lire. Ed è a questo punto che la storia inizia ad assumere i contorni del mistero. Subito dopo la scarcerazione, infatti, il padrino si rifugia in Brasile, dove incontra Tommaso Buscetta e Tano Badalementi, i due vecchi capi-mafia palermitani costretti alla latitanza dall’offensiva militare dei corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Successivamente, si sposta verso Santo Domingo, dove – con tutta probabilità – incontra qualche camorrista di Caserta che lo informa del tradimento ordito dai suoi ex «colonnelli»: Mario Iovine, Enzo De Falco, Francesco Schiavone e Francesco Bidognetti. Il 20 maggio del 1988, Bardellino parte di nuovo per il Brasile, credendo – erroneamente – di essere finito nel mirino dell’Interpol. Il 24 maggio, il boss chiama al telefono la sua convivente, Rita, conosciuta in un negozio di Fuorigrotta, da cui ha avuto tre figli: la rassicura e le dice che proverà di nuovo a contattarla due giorni dopo, il 26 maggio.
Quella telefonata, però, non arriverà mai. Antonio Bardellino scompare nel nulla, inghiottito in un buco nero a migliaia di chilometri di distanza dalla sua terra d’origine. Ciò che accade in quei giorni, sono i collaboratori di giustizia a raccontarlo: «Antonio Bardellino fu ucciso con tre mazzolate sulla testa, il cadavere venne seppellito in una buca scavata nella spiaggia di Bujos, in Brasile, e l’assassino, che agì da solo, fu il boss – un tempo suo amico – Mario Iovine. C’erano forti contrasti tra Mario Iovine e Bardellino, poi ci fu una telefonata “chiarificatrice” con la quale il boss di San Cipriano d’Aversa invitava Iovine in Brasile. Pur temendo di cadere in trappola, Iovine si recò in Brasile, facendosi accompagnare in taxi fino alla villa di Bardellino, a Bujos. All’esterno della propria villetta, Iovine vide l’auto di Bardellino, una Oldsmobile di colore verde che ben conosceva. Ebbe, allora, la certezza che Bardellino voleva tendergli una trappola. Si fece accompagnare dal tassista a una distanza di tre chilometri e, sul litorale, scavò una fossa. Poi, tornò nei pressi della villa, entrò per prendere la propria pistola calibro 38 ma non la trovò. Pensò che l’arma gli era stata rubata durante l’assenza dallo stesso Bardellino. Si armò allora di una mazza ed attese il rientro del rivale. Iovine tramortì Bardellino con un forte colpo alla nuca e lo finì con altre due mazzolate, sfracellandogli il cranio. Poi riprese la propria pistola, che trovò addosso al cadavere di Bardellino, avvolse il corpo in un tappeto, prese i documenti e lo depose nel baule dell’auto di Bardellino. Andò a seppellire il cadavere nella buca. Intanto, a Casal di Principe gli uomini di Bardellino erano in attesa della telefonata con la quale il boss avrebbe dovuto comunicare la morte di Iovine. Arrivò, invece, a Francesco Schiavone e a Vincenzo De Falco la telefonata di Iovine che disse di aver ammazzato il rivale e che bisognava far fuori tutti i parenti e gli amici di Bardellino. Rappresaglia che partì immediatamente e che culminò nell’eliminazione di Paride Salzillo, “figlioccio” di Bardellino».
(Pubblicato sul quotidiano Il Roma)