Tuttolibri, 5 marzo 2022
Intervista a Zadie Smith - su "La donna di Willesden" (Mondadori)
Zadie Smith, scrittrice inglese di origini giamaicane, è una delle voci più vitali e interessanti del panorama letterario anglosassone fin dal suo esordio con Denti bianchi, il romanzo sulla Gran Bretagna multiculturale del dopoguerra. Ora ha scritto un testo teatrale, che le è capitato tra i piedi per caso, come racconta in maniera divertita. Il Brent, il quartiere dove è nata e cresciuta e dove vive a Londra partecipava al concorso per diventare il Municipio della Cultura di Londra per l’anno 2020. Una tale Lois Stonock ha iniziato a mandarle mail con due anni in anticipo sulle celebrazioni per chiederle di scrivere qualcosa. La «sventurata» ha risposto, proponendo di riscrivere in inglese moderno La donna di Bath, una delle novelle dei Racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucher, un testo medievale che per gli inglesi è un mostro sacro come per noi il Decameron. Zadie avrebbe realizzato un monologo, ambientato nel Brent, da pubblicare su un giornale locale. Questa la sua offerta. Per una serie di circostanze e fraintendimenti, complice un pessimo wifi dell’aeroporto di Sidney dove Zadie era appena atterrata per partecipare a un festival letterario, il monologo è diventato una pièce teatrale, La donna di Willesden.
“Non avevo idea che sarebbe stata una delle esperienze di scrittura più piacevoli della mia vita” hai ammesso poi. Come mai?
«Sono sempre stata una studentessa secchiona, e questo testo l’ho preso come un compito a casa. L’unica mia vera preoccupazione era rendere il testo nel modo più fedele all’originale. Ogni giorno sapevo cosa fare, cosa che non accade mai con un romanzo».
Perché “La donna di Barth?”
«Perché è quella che tutti si ricordano dai tempi della scuola. Anche io l’avevo letta seppure in una forma emendata, per tagliare tutte le sconcezze».
Era rivoluzionaria già 600 anni fa. In un mondo in cui una donna era definita dal suo stato civile, Chaucher diede voce ad Alyson, che si era sposata cinque volte e che parlava ossessivamente e apertamente di sesso. L’ha fatta diventare Alvita di Willesden. Come?
«Non avevo più letto la novella dai tempi dell’università e ero curiosa, perché credo che il presente sia molto a-storico. La gente, specialmente i giovani, non hanno tempo e interesse per ciò che è successo nel passato. In Chaucer trovo cose molto più radicali di quante ce ne siano in tanta produzione supposta “radicale” scritta da donne oggi».
Alvita di Willesden è una tipica donna del Brent. Che tipo di migrante è?
«Una di quelle venute a Londra con lavori infimi, come donne delle pulizie pagate una miseria, che hanno lasciato i propri figli in Giamaica con nonne o zie e sono riusciti a portarli solo quindici anni dopo. È pieno di donne che hanno dovuto fare scelte così».
Per lei il quartiere è il suo mondo. Anche per molti altri scrittori inglesi. Non è curioso?
«È vero e non c’è da andarne molto fieri. Sono stata più volte a Roma di quante non sia andata a South London. Dickens conosceva ogni angolo della città... io no».
Cosa è Kilburn High Road per lei?
«Sono nata e cresciuta lì ed era la periferia di approdo di tutti i migranti. Tra l’altro adesso è anche pieno di italiani. Ora che sono invecchiata credo che sia principalmente l’aspetto pratico della vita a spingermi a scrivere del quartiere. Mi piacerebbe viaggiare e lavorare da ogni parte del mondo, come fanno i miei amici scrittori senza figli. Ma non posso e quindi uso quello che ho vicino. Quando i ragazzi saranno cresciuti credo che non scriverò mai più del mio angolino di Londra».
Visto che hai citato gli italiani, come vede la situazione della Londra multiculturale dopo Brexit?
«Sono due cose differenti. Molti giovani italiani che lavoravano nei caffè sono tornati indietro, ma erano arrivati in cerca di migliori opportunità. I migranti di cui scrivo io non sono venuti per scelta. Sono profughi di guerra, o arrivano da paesi economicamente devastati. Le scuole sono piene di questo tipo di migranti. E da questo punto di vista il mio quartiere è cambiato pochissimo con Brexit. Però ci sono meno caffè italiani».
Il suo è un lavoro solitario, chiusa in una stanza. Come ha trovato l’esperienza con 10 attori e la regista Indhu Rubasingham del teatro?
«All’inizio è stato un po’ uno choc. I drammaturghi sono abituati ad avere marionette umane da muovere sul palco, fai questo fai quello. Io non ho mai avuto la fantasia di dire a persone reali cosa fare. Ci ho messo un po’ a capire che quello è il loro lavoro, è quello che amano fare. Ho messo da parte le mie paranoie e li ho lasciati fare e hanno dato vita al testo in una maniera che non avrei mai immaginato».
Ripeterà l’esperienza da drammaturga?
«Chi lo sa. Ho trovato gratificante scrivere per il teatro perché è molto più veloce che scrivere un romanzo: sull’ultimo sto lavorando da sette anni. Ma ho ancora molto da imparare, questa in verità non era un vero testo teatrale. Ho qualcosa che mi frulla nella testa, ma per il momento penso a finire il libro».
Chaucher tocca temi cruciali: misoginia, violenza domestica, potere del corpo delle donne, sesso, libertà, disuguaglianze sociali.
«In certi momenti mentre traducevo mi dicevo: è troppo, questo non lo posso mettere. E mi divertiva pensare che cose scritte tra il 1380 e il 1400 fossero troppo forti per lettori del 2022. Se mi guardo intorno, in molta produzione - libri, televisione, arte in genere – le donne che vedo non mi interessano, sono figure femminili nelle quali non mi riconosco, ed è curioso che mi sia sentita più vicina alla donna di Bath che a quello che posso trovare su Netflix stasera, per esempio».
Non vede voci di donne che si esprimono liberamente?
«È tutta la vita che aspetto di leggere e guardare donne libere mentalmente. Si parla tanto di femminismo e ne parlo anche con mia figlia, ma quando mi dicono che Kim Kardashian è libera perché ha scelto di fare quello che fa… questo è il femminismo che mi viene offerto e non è certo quello che ho in mente».
Oggi si pubblicano molte più donne, ci sono donne registe,voci femminili in ogni campo che prima non potevano neppure esprimersi.
«Certo, è vero. Ma la libertà è una cosa più complicata. Puoi essere libera di scrivere, parlare, fare un sacco di cose, ma non è che siccome hai una voce sei libera. Devi alleggerirti di molte idee, immagini, prima di essere libero».
Di cosa hanno paura?
«Della libertà stessa. È un incubo, perché devi vivere veramente. È molto più facile seguire un modello, anche se è un modello doloroso, sempre meglio di essere liberi. La libertà è un inferno, questa è la cosa terrificante. Ma Alvita mi ha fatto sentire coraggiosa, e questa è una bella cosa».
Cosa hanno in comune Alyson di Bath e Alvita di Willesden, a 600 anni di distanza?
«Le faccio un esempio. Quando è uscito Cinquanta sfumature di grigio, tutti ne parlavano come una cosa così oscena che mi sono detta: prendiamolo. E lo so che può sembrare un’affermazione delirante, ma non ci ho trovato una riga di sesso. Ci ho trovato descrizioni masochistiche e romantiche delle relazioni tra uomini e donne, macchine, soldi, vestiti, scarpe, ma niente sesso. Mi fa impazzire che, nonostante tutta questa pornografia e questa supposta libertà, sia ancora così difficile parlare di sesso vero. E l’ho notato durante lo spettacolo. Alcune persone sono uscite a metà, generalmente uomini anziani, perché si parlava di cunnilingus. Quindi tornando ad Alyson e Alvita, in comune hanno l’essere letteralmente senza vergogna.
Alvita si ispira a qualcuno che conosce nel Brent?
«È una donna che si può incontrare in ogni luogo periferico, anche culturalmente. Non sono influenzate dalla cultura mainstream di giornali, riviste, televisione e generale hanno la possibilità di essere più libere, perché vivono la propria vita senza mediazioni».
Anche il modo in cui si veste è fuori dai canoni.
«Sono stata fedele all’originale, una gonna rossa molto attillata. A Chelsea le donne vestono alla moda, a Kilburn invece in modi unici, come se uscissero da un sogno individuale. Ricordo una donna africana alla fermata del bus vestita in modo incredibile, tutta in denim: panciotto, pantaloncini, un cappello, tutto fatto da lei».
Quanto ha dovuto adattare il testo originale?
«Tutta la parte della misoginia nei miti greci l’aveva già scritta Chaucer. Per il resto ho cercato di trovare equivalenti contemporanei, senza distorcere il senso originario. Chaucher stesso era stato coinvolto in qualche scandalo sessuale. Le fonti sono poche, ma pare che sia stato processato per un abuso su una ragazza, lei poi l’ha perdonato e la questione era stata risolta. Ma credo che quando scriveva si sia chiesto cosa significhi aver fatto qualcosa di sbagliato che coinvolge il corpo di una donna, abusandola o comunque maltrattandola. E si sia chiesto anche quale è la lezione da trarne, al di là di finire in galera, che tipo di riconoscimento dare a chi ha subito un torto».
Come esempi di misoginia contemporanea usa i titoli dei tabloid, le battute e i meme che circolano in rete contro le donne.
«Le storie di donne che uccidono uomini facevano notizia anche ai tempi di Chaucher. La verità è la violenza quotidiana contro le donne, ma si raccontano più le altre storie, perché sono più insolite o fanno ridere. Basta ricordare quanto i giornali hanno indugiato sulla vicenda di Lorena Bobbit, che tagliò il pene al marito. È stata un’analogia naturale».
Non ha usato i social media o il revenge porn online.
«No, ma so quello che accade ed è terribile. Ho amiche giornaliste che mi raccontano gli attacchi che ricevono online e come in qualche modo si sono abituate a tollerarli, perché solo quelle molto potenti possono disabilitare i commenti ai loro articoli. Le giovani devono sopportare un abuso quotidiano».
Ma non si può negare che le cose per le donne siano cambiate.
«Io ho una figlia di 12 anni. E le posso assicurare che la situazione è terribile. È pieno di adolescenti depresse, che si tagliano, anoressiche. C’è un divario enorme tra quello che ti dicono le pubblicità e le serie tv su questa nuova generazione di donne libere e ciò che accade realmente. Il femminismo che ci hanno venduto non è reale, le donne non vivono in questo futuro brillante che viene raccontato. Non ho mai visto una generazione così depressa. E ogni madre lo può confermare. Quindi mi chiedo: cosa sta succedendo?».