Domani, 6 marzo 2022
Il problema del gas in Italia è tutta colpa dell’Eni?
Il racconto italiano della guerra in corso in Ucraina è stato accompagnato, sin dall’inizio, da quello sulla “crisi energetica”. Dopo averci ripetuto fino allo sfinimento che, grazie alla realizzazione del nuovo gasdotto Tap, costato 4,5 miliardi di euro, il nostro sistema energetico era ormai al sicuro, la politica italiana si è improvvisamente accorta che dipendere per circa la metà del gas che consumiamo dalla Russia di Putin sia un problema. E così ora si cerca di correre ai ripari, con le stesse ricette che ci hanno portati nella situazione attuale.
IL MIRAGGIO ALGERINOLunedì scorso, una delegazione composta dal ministro degli Esteri, Luigi di Maio, e l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, è arrivata in Algeria per incontrare il presidente Abdelmadjid Tebboune e il ministro dell’Energia Mohamed Arkab. Scopo della missione: aumentare le forniture di gas dal paese nordafricano, così da svincolare l’Italia da quello russo.
A margine dell’incontro, fonti diplomatiche italiane hanno espresso soddisfazione sostenendo di aver raggiunto un accordo di massima con le autorità locali per un aumento delle esportazioni “nel breve, medio e lungo termine”. Un ottimismo che dovrà però fare i conti con una realtà ben più sfaccettata.
Innanzitutto perché sia la produzione che le riserve di gas algerine sono in declino, complici la mancanza di investimenti nel comparto e l’aumento del consumo interno. Prima di poter esportare più gas in Europa, l’Algeria dovrà incrementare la produzione, ma per questo serve tempo e non solo, vista l’instabilità politica che attraversa il Paese nordafricano da diversi anni.
Secondo l’ambasciatore algerino, Abdelkrim Touahria, è in programma la firma di un accordo tra Eni e Sonatrach per condurre nuove esplorazioni nel bacino Berkine, 800 chilometri sud di Algeri. Rimane da capire quanta sostanza ci sia dietro gli annunci, dato che un accordo quasi identico era stato già siglato dalle due società lo scorso dicembre.
A complicare le cose, negli ultimi anni le relazioni tra Algeria e Stati Uniti si sono fatte sempre più fredde, mentre si sono saldate ulteriormente quelle con il Cremlino. L’ultimo segnale è arrivato pochi giorni fa, dopo che il governo di Algeri ha deciso di astenersi nell’ambito della risoluzione Onu sull’Ucraina, votata a favore da oltre 140 paesi.
La Russia di Vladimir Putin è di gran lunga il principale fornitore dell’esercito algerino, e la scorsa estate i due paesi avrebbero siglato una mega-vendita di armi del valore di 7 miliardi di dollari, che aveva destato preoccupazione tra le cancellerie occidentali.
Di recente, la Russia ha iniziato a esportare grandi quantità di grano in Algeria, che è uno dei principali importatori al mondo. E anche in campo energetico, le collaborazioni tra la Sonatrach e le compagnie russe si sono fatte sempre più strategiche.
Il mese scorso, Gazprom e Sonatrach hanno annunciato l’avvio della fase di produzione di un giacimento di gas nel bacino del Berkine, dove opera anche Eni. Un altro accordo è stato siglato a maggio del 2020 tra Sonatrach e la Lukoil, secondo colosso petrolifero russo.
Anche in materia di relazioni internazionali, dalla questione siriana, ai rapporti con l’Iran, le posizioni del governo algerino sono certamente più vicine a quelle del Cremlino che a quelle degli alleati occidentali.
Al contempo, la Russia si è mostrata allineata con l’Algeria rispetto alla contesa riguardante la regione del Sahara occidentale.
NON VA MEGLIO IN AZERBAIGIANAltrettanto complessa è la situazione rispetto all’altro paese indicato dal premier Mario Draghi come possibile rimpiazzo al fornitore russo, l’Azerbaigian, da dove arriva il gas trasportato dal gasdotto TAP.
Soltanto due giorni prima che l’invasione militare in Ucraina avesse inizio, il leader azero, Ilham Aliyev, al potere da vent’anni, si trovava a Mosca per cementare l’alleanza con il presidente Putin.
In quell’occasione, i due hanno firmato un accordo strategico di ampio spettro che prevede la massima cooperazione tra Russia e Azerbaigian in campo diplomatico, militare ed energetico.Il punto 25 dell’accordo (su 43) stabilisce che i due paesi si asterranno dall’attuare qualsiasi politica economica che possa danneggiare una delle parti. Un chiaro riferimento all’ipotesi ventilata di aumentare le esportazioni energetiche azere verso l’Europa.
A domanda precisa da parte di un giornalista di Rossiya-24, Aliyev ha risposto che un tale incremento richiederebbe investimenti e tempo, precisando che ogni decisione verrà comunque presa di comune accordo con il Cremlino.
Dichiarazioni tutt’altro che rassicuranti per Bruxelles e Palazzo Chigi, che da mesi vanno ripetendo che sarà il Tap a tirarci fuori da questa situazione.
Intanto a Baku, il governo ha inviato la polizia a disperdere i manifestanti che protestavano contro la guerra di Putin.
L’ambizione del governo Draghi di diversificare gli approvvigionamenti di gas, per far fronte a un’eventuale riduzione di quello russo, rischia dunque di tradursi in un totale fallimento.
I RAPPORTI TRA ENI E GAZPROMMa non è solamente l’esecutivo italiano a trovarsi in una situazione difficile. In una posizione scomoda c’è anche Eni, che sebbene non risulti eccessivamente esposta al mercato russo, si vede ora costretta a districarsi tra il rispetto delle sanzioni contro la Russia e la tutela dei rapporti con il suo partner storico, la Gazprom, controllata dal Cremlino.
Non è la prima volta che il cane a sei zampe si ritrova in questa delicata posizione. A febbraio del 2014, le manovre militari russe in Crimea furono duramente condannate da Stati Uniti e Ue, e portarono all’imposizione di sanzioni da parte di Washington. In quel caso, l’allora numero uno di Eni, Paolo Scaroni, si scagliò contro l’ossessione occidentale di voler dare «lezioni di democrazia alla Russia».
In ballo, a quei tempi, c’era la realizzazione del gasdotto South Stream, tassello fondamentale della politica energetica del Cremlino, il cui obiettivo già allora era di aggirare l’Ucraina, ma anche della strategia di Eni, che ne avrebbe detenuto il 50 per cento. A seguito dell’annessione della Crimea, il progetto fu abbandonato definitivamente.
Se i tempi de “l’amico Putin” appaiono lontani, i rapporti tra il colosso energetico italiano e il suo omologo russo non si sono mai fermati.
Tra le collaborazioni più importanti c’è quella relativa al gasdotto Blue Stream, lungo 1.200 chilometri, che collega Russia e Turchia, attraversando il Mar Nero. Dal 1999, Eni e Gazprom condividono la proprietà della sezione offshore del tubo, tramite la società Blue Stream Pipeline Company B.V, registrata in Olanda.
Da una visura effettuata pochi giorni fa, alla guida della Blue Stream risulta esserci il manager Eni, Cristian Signoretto, direttore della divisione Gas del Cane a sei zampe e membro del Consiglio generale di Confindustria.
Al suo fianco siede Elena Viktorovna Burmistrova, numero tre di Gazprom e capo delle esportazioni del gigante russo. Proprio la Burmistrova ha messo in atto la politica di riduzione delle forniture russe, che a partire dallo scorso settembre ha causato l’impennata dei prezzi e dato il via alla crisi energetica.
Gran parte degli analisti concordavano che il Cremlino stesse tagliando i flussi per esercitare pressione sulla Germania e costringerla a concedere le autorizzazione per il gasdotto North Stream 2.
Lo scorso ottobre, la manager russa era tra gli invitati d’onore all’ultima edizione del Forum Economico Eurasiatico di Verona, presieduto da Antonio Fallico, di Intesa Sanpaolo. L’Eurasia per un nuovo ordine geopolitico ed economico-sociale, era il titolo, piuttosto preveggente, dell’iniziativa.
FERLENGHI E GLI ALTRITra i nomi che spiccano c’è anche quello di Ernesto Ferlenghi, direttore di Blue Stream dal 2019. Cittadino russo dal 1995, insignito di diverse onorificenze da parte del Cremlino, di cui l’ultima soltanto pochi mesi fa, Ferlenghi è considerato la mente e il cuore di Eni in Russia. In passato, fu protagonista di una delle vicende più clamorose della storia recente della società, quando il suo predecessore, Mario Reali, lo accusò ai microfoni della trasmissione Rai Report di fare segretamente gli interessi del Cremlino invece che quelli dell’azienda. Ferlenghi, che smentì tutto, fu in seguito oggetto di indagini per sospetta corruzione, ma la sua posizione venne definitivamente archiviata.
A quanto risulta da una seconda visura, Ferlenghi è anche a capo di Eni Energhia LLC, sussidiaria russa del cane a sei zampe, che fu la prima società in Europa a poter vendere gas in Russia.
Scorrendo indietro nel tempo, tra gli elenchi dei consiglieri di amministrazione della Blue Stream, emergono una serie di personaggi che giocarono un ruolo fondamentale nel cementare i rapporti commerciali e politici tra Eni e Gazprom, quando al governo c’era il grande alleato di Putin, Silvio Berlusconi.
Figure come quella di Yuri Komarov, ex-direttore generale della Gazexport, e del suo successore, Alexander Medvedev, detto polkovnik (il colonnello) per le sue precedenti esperienze nei servizi russi. Quest’ultimo fu colui che nel 2006 scatenò la crisi del gas contro Ucraina ed Europa.
Al fianco degli storici vertici di Gazprom sedevano i loro omologhi italiani, come Luciano Sgubini, direttore della divisone gas di Eni. Proprio Sgubini siglò il controverso accordo del 2005, tramite cui Eni prolungava anticipatamente il termine dei contratti di approvvigionamento di gas dalla Gazprom fino al 2027 (sebbene mancassero oltre dieci anni alla scadenza di quelli in essere), mentre quest’ultima otteneva il diritto a vendere gas direttamente in Italia.
Quell’accordo fu poi bocciato dall’Antitrust e sostituito con un altro qualche mese più tardi, a quanto pare non troppo dissimile dal precedente.
TORBIDA CONNECTIONSulle vicende di quegli anni, durante i quali ci vincolammo definitivamente al gas russo, hanno fatto luce le pubblicazioni di Wikileaks, che rivelarono la preoccupazione degli Stati Uniti di fronte alla politica estera ed energetica italiana, che metteva a rischio la strategia di diversificazione voluta da Washington.
«Torbida connection» era l’espressione che veniva usata dai diplomatici americani per riferirsi ai rapporti geo-politici e affaristici tra Roma e Mosca, ben ricostruiti nel libro-inchiesta dei giornalisti Andrea Greco e Giuseppe Oddo “Lo Stato Parallelo”.
Intanto qualche giorno fa, Eni ha annunciato di voler cedere la sua partecipazione in Blue Stream, mossa quasi obbligata dopo quelle decise nei giorni precedenti dalle sue rivali, BP e Shell ed Equinor.
Eni è però l’unica tra le più importanti compagnie petrolifere europee a non aver espresso, almeno pubblicamente, alcuna condanna nei confronti dell’aggressione russa all’Ucraina.
Lo stesso disinvestimento dalla Blue Stream è stato comunicato dall’azienda attraverso una nota alle agenzie, ma a tutt’oggi non ve ne è traccia sul sito web della società.
Oltre ad essere uno dei maggiori clienti di Gazprom, Eni collabora con il colosso russo, Rosneft, nello sfruttamento del gigantesco giacimento di Zohr, in Egitto. Con la Lukoil, invece, condivide le promettenti concessioni a largo delle coste del Messico. Eni e Lukoil sono anche soci del consorzio che possiede i diritti del giacimento di Karachaganak, in Kazakistan, tra i più grandi al mondo.
Il Kazakistan è il paese dove Eni detiene le maggiori riserve di petrolio e il secondo, dopo l’Egitto, per quelle di gas. Una vera e propria miniera d’oro per il cane a sei zampe, che negli ultimi tre anni ha fruttato ricavi superiori ai 5 miliardi di euro, secondo i bilanci aziendali.
Ma gran parte delle vendite degli idrocarburi kazaki dipendono dai russi. A quanto risulta dal suo sito web, Eni infatti invia il 50 per cento del gas prodotto da Karachaganak direttamente alla centrale termoelettrica russa di Orenburg, mentre il petrolio viene convogliato verso due oleodotti, il Caspian Pipeline Consortium e Atyrau-Samara, entrambi controllati dai russi. Per inciso, Eni è anche detentrice di una quota del Caspian Pipeline Consortium di cui, secondo la logica applicata per il Blue Stream, potrebbe ora disfarsi.
Ma, come puntualizza una nota della società,«la partecipazione di Eni nel consorzio è limitata al 2 per cento, è in partnership con diverse altre compagnie internazionali e si tratta di un’infrastruttura strategica poiché non esistono strade alternative per esportare il greggio kazako, che è quello che Eni commercializza».
LA CRISI CHE NON C’ÈAlmeno finora, il titolo di Eni è quello che ha incassato meglio il contraccolpo rispetto alle rivali, limitando le perdite a pochi punti percentuali (-2,85% nel corso del mese). Nulla a confronto del +20 per cento registrato dall’azienda negli ultimi sei mesi grazie all’aumento dei prezzi di gas e petrolio.
Certamente, sotto la guida di Claudio Descalzi, Eni è riuscita ad accaparrarsi quote importanti delle riserve mondiali di gas, come quelle a largo dell’Egitto del dittatore Al-Sisi, con cui i rapporti non si sono mai interrotti, e in Mozambico.
Nel paese africano Eni sta realizzando due dei più grandi progetti di gas liquefatto al mondo. Il conflitto scoppiato nel 2017 nella regione di Capo Delgado, dove si concentrano le attività delle compagnie petrolifere, ha costretto la francese Total a sospendere i suoi progetti e abbandonare il Paese africano, al contrario di Eni che invece continua con le proprie operazioni.
Vedremo quale sarà il prossimo alleato strategico dell’Occidente, le cui colpe verranno fatte sparire sotto una nube di gas. In ogni caso, i nodi con cui ci siamo legati alla Russia di Putin saranno molto difficili da sciogliere.