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 2022  marzo 06 Domenica calendario

8 marzo 1917, rivolta a Pietrogrado

Generalmente, l’8 di marzo, celebriamo la festa della donna. Ora invece preferiamo ricordare un evento le cui conseguenze si trascinano fino ad oggi, nella selvaggia repressione russa in Ucraina. Perché quel giorno, nel 1917, iniziò a Pietrogrado una rivolta che presto sarebbe diventata rivoluzione, e che avrebbe portato al potere una dittatura sanguinaria e crudele quanto quella, quindici anni più tardi, della Germania hitleriana. Il regime bolscevico che ne seguì durò assai più a lungo, e i suoi residui funesti rivivono oggi nelle sembianze di un ex ufficiale della sua polizia segreta, che fa strage di civili e minaccia il mondo della catastrofe nucleare.
LA MOBILITAZIONE
In quegli anni la Russia zarista era logorata da una guerra infinita e ormai insopportabile: il popolo era immiserito e affamato; l’esercito era decimato e allo sbando; il territorio era in parte invaso e devastato; la repressione del dissenso era implacabile e crudele; e infine il sovrano, Nicola II, era inviso per la sua inettitudine e screditato da una moglie fanatica succube di Rasputin, un monaco ciarlatano e pervertito. La rivoluzione, i cui presupposti maturavano da tempo, iniziò con episodio apparentemente casuale, una modesta slavina destinata a diventare una inarrestabile valanga. L’8 di marzo vi fu uno sciopero di operai, seguito nei giorni successivi da quello dei giornali, e di altre categorie di lavoratori. Il giorno 11 si ammutinò un reggimento e il 12 le truppe della Guardia. In pochi giorni l’intero Paese, dai nobili ai borghesi, dai militari ai socialisti, si mobilitò in una sollevazione generale. Il 15 marzo il sovrano abdicò.

IL CAPOPOPOLO
Il potere passò a un comitato della Duma diretto dal principe Lvov, poi sostituito dal socialista Alexander Kerenski, che cercò invano di rimetter ordine in uno organismo disgregato. Nel frattempo i bolscevichi, fino ad allora in prudente attesa, progettarono i colpo finale. Il loro capo, Vladimir Ulianov Lenin, in perenne esilio, fu fatto rientrare clandestinamente in patria dai tedeschi nel famoso vagone piombato per dare la spallata finale al traballante governo. «Fu mandato – scrisse Churchill come una fiala contenente il bacillo del tifo o del colera da versare nell’acquedotto di una città: e funzionò a meraviglia». In effetti, sotto la guida di questo capopopolo incorruttibile, lungimirante e spietato, la Rivoluzione rossa trionfò.
Nel frattempo i disastri militari si moltiplicavano, e alla fine di luglio il fronte collassò. Assunto il potere, i bolscevichi conclusero l’opera con due operazioni spregiudicate. Massacrarono l’intera famiglia dello Zar, compresi gli animali di casa, e stipularono con la Germania una pace a condizioni gravose, ma accettabili. La Russia cedette vari territori, e si dedicò a costruire il comunismo integrale. Alcune di quelle terre oggi sono rivendicate da Putin, come se un secolo fosse passato invano. Ma l’attuale satrapo del Cremlino invoca alternativamente, secondo i suoi interessi, la tradizione della Santa Madre Russia zarista e quella della sovranità limitata di Brezneviana memoria.

LA PROPAGANDA
Fu così che a un regime reazionario e bigotto si sostituì l’utopia visionaria e apocalittica della fede marxiana, ispirata a una dottrina che negando i Paradiso celeste mirava a quello terreno, e promettendo agli ultimi di diventare i primi avrebbe livellato entrambi in una miseria materiale e morale. Il comunismo era cosmopolita, militante e propagandista, e il suo esaltato profeta era disposto a sacrificare milioni di vite, compresa la sua, per l’attuazione di questa mistica palingenesi. Nessuno obiettò che Carlo Marx aveva in realtà previsto, se non auspicato, un epilogo diverso: la rivoluzione sarebbe esplosa dopo un’adeguata transizione dal feudalesimo al capitalismo borghese, che impoverendo progressivamente il proletariato lo avrebbe lasciato in possesso solo delle sue catene da spezzare.
L’Unione Sovietica passò direttamente dall’assolutismo paternalistico del sovrano a quello burocratico del partito, come successivamente avrebbero fatto la Cina, e tutti i Paesi dove la Rivoluzione si affermò dall’interno. Nell’Urss, il costo pagato dalla popolazione fu enorme. Intere generazioni di contadini morirono di fame e di stenti a causa della collettivizzazione forzata, della crudeltà degli aguzzini e dell’incapacità dei pianificatori. Lenin iniziò un timido tentativo di privatizzazioni, interrotto dal fanatismo degli ideologi e infine dalla sua morte. Il suo successore, Giuseppe Stalin, proseguì nella linea più rigorosa della tirannide accentratrice. Per uno spirito liberale, – come Indro Montanelli che ne teneva religiosamente un busto – l’unica consolazione è che nessuno più di lui eliminò fisicamente tanti comunisti. Accanto ai nomi di Zinoviev, Koniev e Bucharin vanno associati migliaia di funzionari civili e di decorati rivoluzionari che al minimo sospetto di infedeltà venivano fatti sparire nei sotterranei della Lubianka.

L’AGGRESSIONE
L’avvento della seconda guerra mondiale ridiede a Stalin fiato, prestigio e potere. Sconvolto dall’inattesa aggressione di Hitler nel giugno del 41, il dittatore scomparve per giorni dalla scena, e molti pensarono al peggio. Vi rientrò spinto dalla risoluzione dei generali e dal suo istinto di sopravvivenza, e riacquistò vigore appellandosi, come oggi Putin, alla tradizione culturale e persino religiosa della grande madre Russia. I nazisti, crudeli quanto stupidi, entrarono in Ucraina accolti come liberatori, ma presto si fecero odiare per i pogrom, le stragi e le rappresaglie. A Babi Yar in tre giorni massacrarono più di trentamila ebrei, principalmente donne e bambini. Il mausoleo in loro memoria pare sia stato in questi giorni bombardato da Putin, a dimostrazione che comunismo e nazismo, braccio teso e pugno chiuso, gulag e lager, si distinguono solo per ingannevoli immagini e un illusorio sillabario fonetico.

L’IPOTECA
Alla fine Stalin, al prezzo di 20 milioni di morti, ricacciò i nazisti fino a Berlino, e alla conferenza di Yalta, approfittando dell’incapacità psicofisica di Roosevelt, impose sull’Europa dell’Est una gravosa ipoteca politica e militare. Da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico – disse Churchill a Fulton – una cortina di ferro era scesa sull’Europa. Negli anni seguenti si ribellarono un po’ tutti; i berlinesi nel 53, gli ungheresi nel 56, i cecoslovacchi nel 68, i polacchi nell’80. Furono tutti schiacciati dai carri comunisti in ossequio a quella che Leonid Brenev chiamava, appunto, sovranità limitata. Quella stessa che oggi Putin pretende sull’Ucraina e che presumibilmente vorrebbe imporre agli altri ex satelliti, se non fossero provvidenzialmente protetti dalla Nato.