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 2022  marzo 06 Domenica calendario

Intervista a Morena Zapparoli, vedova Funari

La telecamera come terzo occhio del telespettatore è alla Funari.
Il dito puntato verso il macchinista e “damme la due, ora damme la tre”, sempre sottintesa la telecamera, è alla Funari.
La pizza con la mortadella tajata fina fina è alla Funari.
L’assenza di filtri, anche quando si è sulla tazza del gabinetto, è alla Funari.
La sigaretta stretta e lunga, mai celata anche dopo la legge Sirchia, è alla Funari.
Le urla, le invettive, le provocazioni, il j’accuse, l’emarginazione televisiva, il ritorno, le delusioni, il rapporto diretto, fraterno, confidenziale con il pubblico sono sempre alla Funari.
E il 21 marzo, il creatore e proprietario dell’aggettivo “alla Funari”, avrebbe compiuto novant’anni.
Morena Zapparoli è sua moglie, dieci anni sempre insieme, tutti i giorni: “Per me è stato pure un grande maestro a livello professionale. Mi ha insegnato tutto”. Quando parla del marito ha sempre un tono di ammirazione, di complicità, di partecipazione emotiva e professionale. Il rimpianto lo ha archiviato con la consapevolezza.
I suoi ritmi di lavoro.
Incredibili, totalizzanti: se era concentrato su un progetto non esisteva altro.
Cosa lo metteva in difficoltà?
Negli ultimi anni forse la nostalgia per palcoscenici più importanti: quando guardava alcuni programmi, magari gli stessi che un tempo sarebbero toccati a lui, un tassello di nostalgia lo avvolgeva.
E…
Se Costanzo, Bonolis o Chiambretti lo ospitavano nelle loro trasmissioni, il giorno dopo i dati dell’Auditel segnavano picchi importanti durante il suo intervento; li confrontava e ogni volta me li mostrava, come a dire “Lo vedi? Il pubblico è con me, mi ama, ma non ho lo spazio”.
Si sentiva perseguitato?
Piuttosto esiliato dalla politica, tutta, sia di destra che di sinistra, “perché li ho massacrati”, ripeteva.
È mai stato seguito, pedinato o minacciato?
(Ci pensa) Negli anni con me no, però è successo qualcosa di strano e pericoloso, a suo dire, quando si è candidato a sindaco di Milano.
Cioè?
Un giorno trovò sulla scrivania di casa un mazzetto di lettere private tra lui e la sua amante; (pausa) insomma, missive amorose, quasi tutte scritte da lei, accompagnate da un biglietto inequivocabile: “Ti troviamo ovunque”. (Sorride) Il problema è che la signora in questione era la moglie di un ministro.
Dolore.
Come minaccia gli inviarono anche una mazza da baseball e altri messaggi non rassicuranti. (Sorride) Dopo la morte di Gianfranco mi ha contattato il direttore di un giornale di gossip, aveva letto questa storia nella sua biografia e ha provato a scoprire il nome dell’amante di mio marito. E con offerte importanti.
E lei?
Non lo so, non me l’ha mai rivelato; comunque a causa di questi episodi rinunciò alla candidatura.
Le donne sono un capitolo importante della vita di Funari.
Prima di me ne ha combinate tante; con me era complicato: stavamo perennemente insieme.
Però prima…
A causa di una storia d’amore ha sempre avuto il dubbio di aver ucciso un ragazzo.
Metafora?
No, realtà: si era innamorato di una ragazza, e lei stava con un tale soprannominato Provolone, tipo losco, grosso e violento, con già sei o sette condanne per rissa, rapina e altre amenità; insomma, tal Provolone un giorno scopre la tresca tra Gianfranco e la sua fidanzata e inizia a cercarlo, fino a quando lo trova di notte sul viale del Pincio, a Roma. Gianfranco lo vede arrivare, gli dà le spalle, e quando il pericolo è a un passo si gira e lo colpisce con un cric tra testa e collo. Di Provolone non ha più saputo nulla: sostiene che sui giornali del giorno dopo non ha trovato alcuna notizia di omicidio.
Funari alla fine la sfangava sempre. 
Beh, vicino allo stomaco aveva come un secondo ombelico: era il foro di una pallottola.
Pure…
Una ragazza svizzera, per gelosia, gli ha sparato più volte e lo ha colpito; per non rovinarle del tutto l’esistenza, Gianfranco dichiarò alla polizia che lei normalmente usciva con una calibro sedici nella borsetta, così venne condannata per tentato omicidio colposo e non preterintenzionale. Quattro anni di galera invece di sedici.
Il Funari privato quanto differiva da quello pubblico?
In nessun modo, era uguale pure dentro casa: ho alcuni filmati privati strepitosi di lui in cucina mentre prepara l’Amatriciana e ha lo stesso atteggiamento di quando, in trasmissione, magari s’incavola con la Santanchè; (sorride) in una puntata sempre la Santanchè se n’è proprio andata dallo studio.
Come mai?
L’argomento era la legge 40 sulla procreazione assistita, io la incalzavo e probabilmente non era così ferrata, tanto da preferire l’addio agli studi piuttosto di trovare qualche risposta.
Che ne pensava dell’imitazione dedicatagli da Corrado Guzzanti?
Gli piaceva, ne era orgoglioso, anche se aveva evidenziato quasi solo i lati più grotteschi; (sorride) alcuni erano reali, come la mortadella tagliata fina fina: far assaggiare la mortadella al politico ospite della trasmissione si era tramutato in un rito osannato dal pubblico ed esaltato dallo sponsor.
A casa la mangiava?
(Sorride) A Roma, a Trastevere, c’era un locale che serviva la pizza-Funari: bianca con la mortadella.
Che uomo era con lei?
Attento, gentile, premuroso; poco dopo la nostra conoscenza, un giorno mi disse: “Chissà chi ci sarà con me quando lascerò questa terra”; “Te lo dico già: io”. Non ci siamo più lasciati.
Lo rimproverava per le sue abitudini?
Complicato, era come limitare le sue libertà; per mangiare si alzava anche alle tre del mattino, fumava due o più pacchetti di sigarette e beveva una quantità assurda di Coca Cola. Se lo rimproveravo si incavolava, poi il giorno dopo si scusava, ma non cambiava.
Donne a parte, le raccontava del suo passato?
Per forza, anche perché era come sfogliare un bellissimo romanzo di avventura.
Le sue “pagine” preferite?
Gli anni da croupier in giro per il mondo, in particolare nel Sud-est asiatico: lì divenne uno degli uomini di fiducia di tal Mister Blanche, un gestore di casinò, un gangster, secondo lui intelligentissimo, che gli ha insegnato tutte le tecniche del mestiere; (cambia tono) una sera, come forma di ritorsione contro Gianfranco, i sicari gli hanno spezzato quattro dita della mano e Mister Blanche lo ha successivamente vendicato.
Come?
Dando fuoco al grattacielo dei mandanti.
E di lui cabarettista?
Raccontava del suo debutto al Derby una sera del 1969, subito dopo l’esibizione problematica di Gino Paoli.
Cosa accadde a Paoli?
Mentre suonava, uno spettatore molesto, con cadenza romana, chiese più volte, a voce alta, un bicchiere di whisky, fino a quando Paoli si stranì e ne nacque una discussione quasi in rissa; poi salì sul palco Gianfranco, tutto bene, ma al momento del bis proprio lui cadde nell’errore di chiedere, gigioneggiando, “ma proprio lo volete?”. “Sì”. “Siete sicuri?”. E il tizio romano: “Perché non te ne vai a cagare?”.

E lì?
Uscì dall’angolo con una replica alla Alberto Sordi in Un americano a Roma: “Non posso”. “Perché sei stitico?”. “No, ho paura d’incontra’ ’no stronzo come te”. Per le risate venne giù il Derby.
Di quel tempo con chi aveva mantenuto i rapporti?
Quasi con nessuno, giusto Gaspare e Zuzzurro, ma loro sono arrivati dopo; secondo Rino Formica (Gaspare) Gianfranco gli ha insegnato le giuste pause per ottenere la risata.
Le pause lunghe erano un classico alla Funari…
E arrivavano proprio dall’esperienza del cabaret.
I suoi amici?
Pochi; (pausa) al suo funerale si è presentata tanta gente comune, pochi dello spettacolo o del giornalismo, giusto Piero Chiambretti; poi ricordo Marco Ferrando (ex parlamentare del Prc), il giudice Gian Carlo Caselli e Antonio Di Pietro.
E amici del passato?
Amava ricordare Franco Califano, legati da quando erano ragazzini: lo definiva un acchiappone, uno vero, un poeta, e spesso canticchiava la sua Io non piango; (sorride) avevano avuto una fidanzata in comune e questo metteva in imbarazzo proprio Califano.
Cosa amava ripetere?
Di aver pagato sempre le tasse e non mancava di segnalarlo pure ai suoi genitori.
Come mai?
Gli era legatissimo, ma in particolare con la madre aveva passato anni difficili, anche di incomprensioni.
Comunque Funari ostentava.
Era parte di lui, una forma di rivincita rispetto alla povertà subita da ragazzo e rimarcare “io pago le tasse” era come dire: “Sono qui, ho una Bentley, vesto firmato, ho l’orologio d’oro, eppure non ho barato”.
Nella sua biografia spesso parla di un programma ispirato alla Divina Commedia: in quale girone si sarebbe visto?
Avevamo pensato a una trasmissione nella quale usciva dalla bara, si trovava in un campo di girasoli e arrivavo io vestita da vedova; quel campo di girasoli rappresentava il Purgatorio. Lui era perfetto lì.
Si considerava un peccatore?
Certo! Ma la maggior parte dei suoi errori arrivava dall’impulsività.
Iroso.
S’incavolava spesso, ma non portava rancore.
Vanitoso.
Tantissimo. Il suo guardaroba era uno spettacolo e si piccava di aver inventato, con Armani, la maglietta girocollo sotto la giacca e che Berlusconi in questo lo aveva copiato.
Racconta Enrico Lucci: “Gianfranco si raccomandava: ‘Lavate tutti i giorni la capoccia’”.
(Ride) È vero, per lui significava rinfrescarsi le idee.
Lucci veniva spesso a casa vostra.
Una volta al citofono si è presentato come il figlio di Gianfranco. Vidi la governante correre da noi allarmata: “Alla porta c’è un ragazzo che sostiene di essere suo figlio!”.
Rimpianto.
Di non aver frequentato abbastanza la figlia; per motivi di lavoro era stato un genitore assente, era l’epoca di lui croupier, e non ha mai trovato la forza di recuperare. Peccato.
Delusioni.
Sicuramente Apocalypse show, il programma firmato da Diego Cugia per Rai1: sapeva perfettamente che non era per lui, e ha pensato fino all’ultimo di rinunciare, ma fu più forte la tentazione di tornare protagonista sulla rete principale.
Passione.
Se la Roma vinceva la domenica era convinto che la settimana sarebbe andata bene.
Chi era lui?
Una persona libera e sincera. E questi atteggiamenti li ha pagati.
(Cantava Franco Califano negli anni 70: “Io piango quanno casco nello sguardo de’ ’n cane vagabondo perché ce somijamo in modo assurdo. Semo due soli al monno. Me perdo in quell’occhi senza nome che cercano padrone”).