La Stampa, 6 marzo 2022
La morte di John Belushi
Aveva compiuto trentatre anni da poco più di un mese, John Belushi, e il compleanno era stato celebrato come sempre con quantitativi enormi di alcool e droga. Era il comico più popolare del mondo, e la sua energia anarchica e rivoluzionaria sembrava potesse irridere e dominare qualunque ostacolo, qualunque istituzione, ma in realtà era lui e esser dominato da demoni che aveva coltivato sin da bambino. In quei giorni diceva a tutti di essere «stravolto e disilluso», e che «il successo confonde»: Dan Aykroyd, che intuiva il rischio letale di quella deriva psicologica e fisica, cercava in ogni modo di coinvolgerlo in nuovi progetti, a cominciare da Ghostbusters, ripetendogli quotidianamente «È perfetto per te». Nessuno come Aykroyd ne conosceva l’intima fragilità che si nascondeva dietro quella maschera sfacciata e irridente. Cercò di convincerlo a partecipare a Ghostbusters anche poche ore prima che lui decidesse di anestetizzare il dolore di vivere con un’ennesima miscela micidiale di cocaina ed eroina, che ne stroncò l’esistenza.Fu Cathy Evelyn Smith, compagna occasionale, a sbagliare le dosi, ma quanto avvenne nel bungalow numero tre dello Chateau Marmont è avvolto nel mistero: l’unica cosa certa è che parteciparono a quella festicciola tossica anche Robert De Niro e Robin Williams, e che Belushi aveva acquistato la droga dopo aver chiesto del denaro al suo manager con la scusa di acquistare una chitarra. La comunità hollywoodiana fu sconvolta da quella morte annunciata, e sorpresa dal fatto che i funerali furono religiosi: al termine del rito ortodosso, lungo e solenne, Aykroyd suonò The 2000 Pound Bee/L’ape da mille chili, per tener fede a una promessa fatta ai tempi del Saturday Night Live, dove l’amico aveva creato quel personaggio, esilarante e completamente nonsense.Belushi non parlava pubblicamente di religione, ma era affascinato dall’elemento liturgico, cosa alquanto sorprendente per una persona che in ogni occasione manifestava la propria ribellione nei confronti di ogni rito e istituzione. Ed era molto legato alle proprie radici albanesi: il padre, ristoratore, sperava che continuasse l’attività di famiglia, mentre la madre, farmacista, lo incoraggiava a seguire il proprio talento ribelle. Cominciò a recitare a scuola e poi al college, dove divenne un attivista politico, schierandosi pubblicamente contro la guerra in Vietnam. I suoi primi sketches, a cominciare dalla parodia del sindaco di Chicago Richard Daley, erano politici, ma poi visse come un limite anche la difesa dei propri ideali, e diede vita all’imitazione di Joe Cocker, grazie alla quale divenne una star del National Lampoon e poi del Saturday Night Live, dove entrò a far parte di una squadra di comici formata da Chevy Chase, Bill Murray, Gilda Radner, Eddie Murphy, Steve Martin e ovviamente Aykroyd, del quale divenne intimo amico. Per la disperazione degli autori e l’assoluto divertimento degli spettatori, improvvisava continuamente, stravolgendo le sceneggiature, e alternando parodie di personaggi diversissimi quali Gandhi e Mussolini a invenzioni irresistibili come l’Ape e il Samurai. Ed è proprio al Saturday Night Live che crea, insieme ad Aykroyd, il personaggio dei Blues Brothers, anticipando nel programma televisivo il film di culto di John Landis. Amava suonare e cantare, ma soprattutto stupire e spiazzare, sovvertendo ogni possibile regola. Ammirato dal suo talento magnetico e istintivo, Steven Spielberg gli offrì un ruolo nello sfortunato 1941, Allarme a Hollywood, dove risulta evidente che lo strabordante carisma gli consentiva di appropriarsi di tutte le scene che interpretava, come successe anche nei Blues Brothers quando si è trovato a fianco di mostri sacri come Ray Charles, James Brown e Aretha Franklin. Non c’è film che abbia interpretato che non risulti inconcepibile senza la sua presenza, anche quando non era il protagonista assoluto, come in Animal House. Riuscì a stupire e spiazzare il pubblico anche con un cambio di tono negli ultimi ruoli, dove rivelò una sensibilità dolente e una ricchezza di sfumature interpretative che tuttavia non riscossero il successo del pubblico, voglioso di vederlo all’opera solo nel ruolo di ribelle. Il giorno del funerale c’è chi ricordò che aveva lasciato un ricordo indelebile con soli sette film, due dei quali di successo. C’è chi parlò di un talento vulcanico e autodistruttivo, ma fu proprio Aykroyd a dire, tra le lacrime, che dietro la potenza devastatrice dei suoi sberleffi c’era un disperato bisogno di calore e normalità. —