Corriere della Sera, 6 marzo 2022
Su Beppe Fenoglio
Caro Aldo,
cento anni fa nasceva il grande Beppe Fenoglio, le sue colline lo ricordano, ma anche le mie colline dell’Oltrepò pavese.
Lelio CalviCaro Lelio,
alla fine non furono i soloni dell’alta cultura, ma il figlio del macellaio di Alba a scrivere il grande romanzo della guerra partigiana. Il talento è un dio bizzarro. Spira dove vuole. Sdegna le nomenklature. Schiva le nascite nobili. Evita i nomi altisonanti. Non conosce gerarchie di partito e di accademia, è estraneo alle ideologie e ai rapporti personali. Certo, anche altri hanno scritto pagine importanti e ancora vive sulla Resistenza, da Cesare Pavese a Elio Vittorini a Italo Calvino, demiurghi dell’Einaudi sia pure in stagioni diverse. Ma forse nessuno, dentro e fuori il Parnaso torinese dell’Einaudi, ha avuto il nitore, l’essenzialità, il passo scabro dell’impiegato Beppe Fenoglio. Basta andare negli archivi dei giornali per rendersene conto: quando Fenoglio muore, il 18 febbraio 1963, la notizia esce in un trafiletto; il decimo anniversario è un titolo a tre colonne; via via lo spazio cresce, e nel 2013 per i cinquant’anni dalla morte si sono giustamente lette pagine su pagine.
La modernità di Fenoglio deriva innanzitutto dallo stile. Nell’Italia degli Anni Cinquanta ancora abituata alle ridondanze barocche del fascismo, o rassegnata a una certa medietà neorealista che in letteratura non ha raggiunto i livelli del cinema, lui usa un italiano anglofilo, non soltanto per le frequenti citazioni dall’inglese (e dalla musica americana) quanto per il linguaggio secco come uno sparo, immediato, asciutto, da bassorilievo più che da scultura a tutto tondo, frutto più di erosione che di accumulazione, ottenuto più con il levare che con l’aggiungere. La sua immediatezza era in realtà il frutto di una tecnica oltre che di un talento: «La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti; mi costa una fatica tremenda e gravi rinunce», come disse lo stesso Fenoglio a un giovane critico che ne aveva intuito il genio, Pietro Citati. Del resto, Beppe non avrebbe saputo e potuto scrivere in un altro modo. La sua moralità era fermissima. Si pensava come un soldato di Cromwell, «con la Bibbia nello zaino e il fucile a tracolla».