Corriere della Sera, 6 marzo 2022
La Maraini parla di Pasolini
Dacia Maraini, cent’anni fa nasceva Pier Paolo Pasolini. Nel suo nuovo libro lei racconta che le accade spesso di sognarlo.
«Sì, ed è sempre il giovane cinquantenne che frequentavo: bello, piccolo, ben fatto. Ora vive solo dentro i miei occhi».
Nei sogni vi parlate.
«Forse è un retaggio della mia infanzia giapponese. In Italia i morti sono morti e basta, se tornano sono fantasmi che fanno paura. In Giappone i morti sono presenze benefiche. Si offre loro il cibo. Si chiedono consigli».
Lei parlava giapponese?
«Certo. A sei anni scappai di casa perché papà mi aveva accusata ingiustamente di aver versato l’inchiostro su uno dei suoi libri. Mi trovarono in questura che parlavo con i poliziotti nel dialetto di Kyoto. Purtroppo l’ho dimenticato».
Qual è il suo primo ricordo?
«La neve. A Hokkaido, dove mio padre Fosco studiava gli Hainu, i cacciatori di orsi dai volti dipinti, c’erano due metri di neve. Mia madre Topazia mi tirava sullo slittino».
E la guerra come la ricorda?
«Dopo l’8 settembre i miei rifiutarono di firmare per Salò. Per i militari giapponesi eravamo traditori della patria. Ci chiusero in un campo, con una ciotolina di riso al giorno. Mi ammalai: scorbuto, beriberi, anemia perniciosa. La fame è terribile, non vedi più, perdi i capelli, i denti. Io per fortuna perdevo i denti da latte».
Celebre il gesto di suo padre, che per protesta si tagliò un dito.
«Si chiama Yubikiri. È un’antica usanza dei samurai, che crea un obbligo: la persona contro cui getti il dito amputato non può più considerarti un vigliacco. Così ci diedero la capretta».
Una capretta?
«Il suo latte ci salvò».
Poi arrivarono gli americani.
«Angeli. Eroi. Il Natale 1945 è uno dei più bei ricordi della mia vita: fiori, dolci e fuochi d’artificio».
Nel Natale 1946 era in Sicilia.
«A Bagheria, da mia madre. Povertà arcaica. Le donne vestite di nero già a quarant’anni, i contadini con l’asino».
È vero che lavorava come hostess?
«Sì. Vinsi il concorso alla Pan Am».
Come conobbe Alberto Moravia?
«Avevo scritto il primo romanzo e lo proposi a un piccolo editore, Lerici, che mi disse: “Bimba mia, se vuoi che te lo pubblichi devi procurarti la prefazione di un grande scrittore”».
Elsa Morante non fu gelosa di lei?
«Elsa e Alberto non erano più insieme da tempo. Lei ebbe altri amori. Luchino Visconti, che era bisessuale; e Alberto notava che per amor suo Elsa, che era romana, parlava con l’accento milanese. Bill Morrow, il pittore: bello, omosessuale, drogato, si gettò dall’Empire State Building».
Una vita terribile.
«Elsa aveva il culto della verità. Una volta con Alberto incontrò un amico comune, un poeta, e gli gridò: “Ciao, ho letto il tuo libro, è bruttissimo!”. Ma non si deve pensare Elsa come disperata. Ad esempio amava molto giocare. A Natale organizzava la pesca dei regali. Poteva capitarti un semplice portaspille o una sciarpa preziosa. Le sono rimasta vicina sino alla fine. Sul letto di morte voleva ancora giocare».
A cosa?
«A un gioco che si chiamava “se fosse”. Se fosse un albero, cosa sarebbe? Se fosse un cibo, cosa sarebbe? Il personaggio da indovinare era Pier Paolo. Non indovinai».
Lei era gelosa di Moravia?
«Se capitava... E capitava, perché Alberto era corteggiatissimo, le donne gli si infilavano in casa... Ma anche dopo siamo rimasti amici. Il giorno in cui morì avrei dovuto portarlo a Sabaudia. Fu Enzo Siciliano ad avvisarmi: “Alberto non c’è più, passo a prenderti tra cinque minuti”. Non è mai venuto».
Chi c’era nel vostro gruppo?
«Ci vedevamo a Roma da Rosati, che allora era un caffè popolare, non di lusso come oggi. Arrivavi il tardo pomeriggio e trovavi Fellini, Citati, Giorgio Bassani, Cesare Garboli, Dario Bellezza, Bernardo Bertolucci, Natalia Ginzburg. E poi i poeti».
Ungaretti com’era?
«Un uomo molto dolce».
Sandro Penna?
«Delizioso. Viveva di notte. Quando chiudeva l’ultimo bar andava a chiacchierare con i farmacisti di turno».
Morante
Elsa aveva il culto della verità, ma non era gelosa di me. Le sono rimasta vicina sino alla fine: sul letto di morte voleva ancora giocare
Anche Montale era delizioso?
«Eugenio Montale era cattivissimo. Parlava male di tutti gli altri poeti, vivi e morti».
Dario Bellezza?
«Anche lui un carattere difficile. Si riconobbe in un personaggio de La Storia, e aspettava Elsa sotto casa per chiederle che le pagasse i diritti».
Gadda?
«Ispido. Viveva da solo con la madre. Aveva annunciato di essersi messo a dieta, ma una domenica Parise lo incontrò sul lungotevere, in mano un vassoio di paste. Vistosi scoperto, Gadda gettò le paste nel fiume».
Flaiano?
«Gran conversatore, con questo dolore dentro della figlia malata, di cui non parlava mai. Lo stesso dolore che straziava Natalia Ginzburg».
Arbasino?
«Molto snob. Frequentava solo principesse e miliardari. Il Gruppo 63 fu ingiustamente feroce con Bassani, uomo dolcissimo, e con Cassola, che era un grande scrittore. Eppure oggi del Gruppo 63 non resta nulla».
Resta Umberto Eco.
«Sì, grazie ai suoi romanzi. Ma loro avevano teorizzato la morte del romanzo».
È vero che Tinto Brass ci provò con lei?
«Lo dissuasi con lo sguardo».
Cosa fa Pasolini nei suoi sogni?
«Vuole riprendere a fare cinema. Nel sogno compaiono anche i suoi tecnici, Alessandro, Marcello, che mi dicono: Dacia digli che è morto e non può lavorare. Ma Pier Paolo insiste con il suo bell’accento friulano: lo so che sono morto, questa morte mi ha fatto perdere anni di lavoro, ma ora torno in vita e voglio ricominciare a fare film...».
Di cosa parlavano Moravia e Pasolini?
«Parlava quasi sempre Alberto, che era un grande affabulatore. Pier Paolo non parlava quasi mai. Ogni tanto spariva. Una volta in Africa lo vedemmo tornare tra due poliziotti: “Il vostro amico è ubriaco!”. Rispondemmo che non era possibile, Pier Paolo non beveva».
Era astemio?
«Aveva l’ulcera. Una volta in un’osteria del ghetto ebbe una crisi, uscì dal bagno in un lago di sangue, lo presi in braccio, credevo stesse morendo. Al posto del vino beveva latte. Temo che detestasse il latte. Ogni volta che lo beveva faceva una piccola smorfia, spesso gli rimanevano due piccoli baffi bianchi all’angolo delle labbra...».
Dov’era finito Pasolini in Africa?
«In un quartiere proibito, dove si rapinava e ci si accoltellava».
Spariva per cercare giovani uomini?
«Pier Paolo Pasolini non era un predatore sessuale. Non era un dominatore. Il suo approccio non aveva nulla di violento. Era ludico. Con i ragazzi giocava a pallone, scherzava, rideva. Cercava se stesso bambino. Poi, certo, faceva l’amore. Aveva scoperto la sua omosessualità a sei anni, l’avevano perseguitato e irriso per questo».
Amava anche le donne?
«Moltissimo, ma solo in modo platonico. In ogni donna lui vedeva la madre: possederla sarebbe stato come un incesto. Una volta facevamo il bagno a Sabaudia, un’onda accostò i nostri corpi, e lui d’istinto mi respinse, come se stesse consumando un sacrilegio. Di una donna però poteva innamorarsi. Pier Paolo e Maria Callas erano innamoratissimi».
Innamoratissimi?
«Era il Natale 1969, partimmo per un viaggio in Africa: Senegal, Costa d’Avorio, Mali. A Bamako l’albergo aveva solo due stanze. La Callas ci provò: “Io dormo con Pier Paolo!”. Lui fu fermissimo: “Dacia e Maria dormono insieme, io da solo”».
Com’era la Callas?
«Pier Paolo me la presentò a Parigi, dove lei cantava nella Sonnambula. In scena era un genio assoluto: entrava lei e gli altri sparivano, mai vista una cosa del genere. Nella vita era tenera, affettuosa, insicura, fragilissima. Ci raccontava la crudeltà con cui l’aveva trattata Onassis. Non era intellettuale, ogni tanto le scappava un’ingenuità, e Pier Paolo la rimproverava, bonario: Mariaaa... La ricordo all’aeroporto, jeans stracciati, camicetta, valigia: una bambina greca».
Com’era la vostra Africa?
«In un villaggio, sotto un baobab, trovammo un morto. Lo stregone lo interrogava strattonandolo: chi è stato a ucciderti? È stato lui? Se la testa cadeva a destra, voleva dire no, se cadeva a sinistra, sì. Mangiavamo scatolette da tre giorni, e incontrammo un vecchio che vendeva uova. Ne comprammo venti. Alla sera le aprimmo pregustando una frittata: erano piene di sabbia. Il vecchio ci aveva ingannati. Da allora, per indicare una delusione o una truffa, dicevamo “uova di sabbia”».
Nella Medea di Pasolini c’erano la Callas e Piera Degli Esposti, che divenne la sua migliore amica.
«Piera mi raccontò la sua storia. La madre andava in letargo d’inverno, si chiudeva in casa vittima di terribili depressioni, e con la primavera usciva alla ricerca di amanti, spesso in compagnia della figlia. La chiusero in manicomio, Piera vide le sedute di elettrochoc... Ne nacque un libro. Venne a presentarlo Marco Ferreri, e disse a malapena due parole svogliate: un disastro. Il giorno dopo mi chiamò: il libro mi ha sconvolto, ne farò un film. E lo fece davvero, con Hanna Schygulla e Isabelle Huppert».
Com’era Susanna, la madre di Pasolini, la Madonna della Passione secondo Matteo?
La compagnia
Montale era cattivissimo,
Gadda ispido. Mentre
Arbasino frequentava
solo principesse
Ungaretti invece era molto dolce
«Una bambina. Non aveva nulla di materno, pareva la figlia di Pier Paolo, e lui era molto protettivo nei suoi confronti; forse anche al pensiero di come Susanna aveva perso l’altro figlio, Guido...».
Partigiano bianco, assassinato dai partigiani comunisti a Porzus.
«È così. Una sera in Congo, dopo duecento chilometri di pista, arrivammo distrutti nel rifugio per soldati dove avremmo dormito (evitavamo i grandi alberghi). Pier Paolo voleva telefonare alla madre, ma il telefono non c’era. Fece altri cinquanta chilometri pur di sentire la sua voce, di sapere come stava».
Almeno stava bene?
«Aveva un gran mal di testa. Pier Paolo ebbe mal di testa due giorni. Per simpatia con la madre».
E il padre?
«Era un militare, si chiamava Carlo Alberto. Da bambino Pier Paolo l’aveva amato molto. Ma in guerra fu fatto prigioniero in Africa, e quando tornò era un uomo diverso. Irascibile, disperato, violento. E alcolizzato. Anche per questo Pier Paolo non beveva. Ed evitava qualsiasi espressione di rabbia, qualsiasi gesto di stizza».
Poteva essere un uomo molto duro, però.
«Solo nelle polemiche pubbliche. Allora diventava provocatorio. Bravissimo a suscitare collere, odio, ansia di vendetta. Ma nella vita privata era l’uomo più mite che abbia conosciuto. Non gli ho mai sentito alzare la voce».
Sui set di Pasolini c’era Ninetto Davoli.
«Il suo grande amore. Pier Paolo soffrì moltissimo quando lui si sposò con Patrizia. Tentò in ogni modo di dissuaderlo: “Il matrimonio fa schifo, finirai per detestarla...”».
Come andò?
«Si sposò lo stesso ed ebbe due figli, che chiamò Pier Paolo e Guido, come il fratello ucciso. Anche Ninetto adorava giocare. Giravamo in Yemen, allora Paese medievale: non c’erano carceri, per strada trovavi i condannati che trascinavano una palla di ferro legata al piede. Per Il Fiore delle mille e una notte affittammo un leone. Ninetto cominciò a giocare con il leone affittato, che gli saltò addosso, gli ficcò le zanne nelle spalle e rimase così. Pensavamo lo volesse mangiare e chiamammo il domatore. Il domatore assicurò che pure il leone voleva solo giocare».
Lei, Moravia e Pasolini dividevate anche la casa di Sabaudia.
«Due appartamenti e un terrazzo in comune. Quando la notte sentivamo i passi dei suoi stivaletti da gaucho capivamo che Pier Paolo era tornato, e dormivamo più tranquilli. Anche adesso mi accade di sognare il ticchettio dei suoi stivaletti da gaucho».
Com’erano le giornate?
«Alberto il mattino scriveva, il pomeriggio andava a scegliere il pesce che io cucinavo la sera, quasi scondito: un po’ di limone, un pugno di cumino. Pier Paolo mangiava pochissimo. Al contrario di Mastroianni...».
Che ricordo ha di lui?
«Marcello era un uomo pigro e adorabile. Una sera cenammo insieme da Giovanna Cau, che era l’avvocata di entrambi, e lui mi rubava il cibo dal piatto: dai Dacia prendi un’altra forchettata di spaghetti, dai Dacia prendi un’altra fetta di torta...».
«Maraini e Pasolini, scrittori pornografi». Finiste insieme su una storica copertina del Borghese.
«Pier Paolo ricevette più di ottanta denunce, tutte ingiuste: oscenità, perversione, offesa alla religione. Proprio lui, che era profondamente cristiano».
Non era comunista?
«A modo suo. Anarcoide. Non parlava di massa ma di moltitudine, non di operai ma di umili».
Lei Dacia cosa aveva combinato?
«Avevo scritto una poesia sul seme maschile. Ho anch’io una piccola collezione di denunce per oscenità; per fortuna ci mandavano sempre assolti. Pier Paolo però era molto odiato. In Sicilia ci contestarono al premio Zafferana, ci tirarono i finocchi. Non ho mai capito se erano estremisti di destra che ce l’avevano con noi, o estremisti di sinistra che contestavano il premiato: Ezra Pound».
Come reagì Pound?
«Rimase impassibile. Non disse una parola, anche perché non parlava mai: si era inflitto il silenzio come castigo per l’adesione al nazismo. Se voleva dire qualcosa si rivolgeva alla moglie, che parlava al posto suo».
È vero quel che raccontano, che Pasolini cercava la morte?
«È una sciocchezza. Amava la vita, e cercava il pericolo. Come Messner in Tibet, o Hamilton in Formula Uno: non vuole morire, vuole vincere la sfida».
Che idea si è fatto sul suo assassinio?
«Non può essere stato Pino Pelosi da solo. Pelosi era un ragazzino; Pier Paolo era forte, allenato. L’hanno ucciso altre persone che poi hanno comprato o imposto il silenzio a Pelosi».
Lei andò a trovarlo al minorile, subito dopo l’omicidio.
«Volevo farlo parlare. Non c’era stata una vera inchiesta, visto che c’era un reo confesso. Ma Pelosi non mi disse una sola parola umana. Soltanto da adulto rivelò che non era lui l’assassino».
Crede a un delitto politico?
«Pier Paolo diceva di sapere chi aveva ucciso Enrico Mattei, ma di non avere le prove. Perché ha intitolato il suo ultimo libro Petrolio, anche se di petrolio nel libro non si parla? Cosa c’era nei due capitoli spariti? Fatto sta che neppure oggi sappiamo con precisione chi uccise Enrico Mattei».
L’omicidio
Non può essere stato Pino Pelosi da solo. Era un ragazzino. L’hanno ucciso altre persone che poi hanno comprato il suo silenzio
Al funerale Moravia disse: «Abbiamo perso un poeta, e un poeta dovrebbe essere sacro...».
«...Ne nasce uno ogni secolo... Alberto era la ragione, Pier Paolo l’istinto. Al ritorno dall’India ognuno scrisse un libro. Moravia lo intitolò Un’idea dell’India, Pier Paolo L’odore dell’India. Mi ricordo il suo...».
Com’era l’odore di Pasolini?
«Eravamo a Khartoum, andai a chiamarlo il mattino presto. Bussai, aprì. Sentii un odore di bocca amara, sapone alla violetta, dopobarba al tabacco. L’avevo svegliato bruscamente ma lui ebbe un sorriso dolce: Dacia, arrivo. Poi attese che mi allontanassi, per non farmi lo sgarbo di chiudere la porta davanti a me»