la Repubblica, 6 marzo 2022
Biografia di Silvio Di Francia
L’intervista a Silvio Di Francia, ex assessore alla Cultura di Roma di Luigi Manconi «Non è facile per un logorroico, che si annuncia con la formula: sarò breve, e poi non la finisce più, accettare di inciampare nel linguaggio fino all’afasia». Parla così – o meglio, comunica faticosamente, molto faticosamente così – Silvio Di Francia. Due anni e mezzo fa, poco più che sessantaquattrenne, mi raccontò che il giorno dopo avrebbe, per la prima volta in vita sua, incrociato i guantoni per il suo battesimo nel pugilato amatoriale. Scherzammo e gli consigliai di indossare un accappatoio di raso luccicante, con la scritta “Tiger of Torre Maura” (la borgata dove è cresciuto). Quando ci sentimmo nuovamente, dopo una settimana, mi disse che il giovanissimo sfidante «senza alcuna cortesia» e nessun rispetto per gli anziani, al primo colpo gli aveva incrinato due costole. Silvio Di Francia è fatto così, ne ha sempre una nuova: è stato redattore radiofonico di Radiotre, alla Rai, dove collaborò col grande direttore Enzo Forcella e con il “fratello” Marino Sinibaldi, ghostwriter, assistente parlamentare, consigliere comunale, giornalista professionista, dirigente di partito, Presidente di Zétema, assessore alla cultura di Roma Capitale e, anni dopo, della città di Latina. In questa onnivora capacità espressiva e produttiva, si possono individuare tre fasi. La prima è quella della militanza in Lotta Continua e, pensate un po’, nel judo nazionale, del quale diventa un esponente di rilievo, fino a raggiungere importanti traguardi: tre volte campione italiano, due Coppe Italia, diverse finali italiane e svariate presenze nella Nazionale azzurra. La sua seconda vita è stata quella di dirigente della Federazione dei Verdi e consigliere comunale per 13 anni. Prima nella giunta di Francesco Rutelli, poi in quella di Walter Veltroni, fino a diventare coordinatore della sua maggioranza. Quindi assessore alla cultura dal 2006 al 2008. Infine, la terza fase della sua complicata esistenza è quella attuale. Che vede una intensa e molto gratificante attività di assessore alla cultura a Latina e, poi, la malattia. Quell’imprevista insidia che aggredisce uno dei suoi tratti e uno dei suoi vizi-virtù più inconfondibili e attraenti: quello di essere un colto e incontinente intrattenitore, dotato di un forte accento romanesco (che sa tenere sotto controllo quando necessario) e di una ironia che non rifiuta la tonalità vernacolare. Con un ulteriore soprassalto: ridotto nella sua capacità oratoria, era pressoché fatale che Di Francia si dedicasse alla scrittura, compilando testi per la presidenza della Regione Lazio. Ma torniamo a quei giorni fatali: «Ho cominciato a percepire una difficoltà nella lingua mentre, a casa, suonavo la chitarra. Testi consueti che conoscevo a memoria e che mi uscivano dalla bocca a fatica. Certo, la musica richiede ritmo nella scansione delle parole, ma attribuivo questa improvvisa imprecisione alla stanchezza (detto tra noi si trattava della canzone “Fango” di Riky Gianco, introdotta da un lungo recitato che proprio non mi riusciva!)». Quando tutto ciò? «Era l’estate del 2020. Ripassavo le canzoni per una serata tra amici, a Latina, che – ovviamente – non si tenne più». Poi c’è stato un lunghissimo itinerario di accertamenti e ipotesi. «Nel frattempo mi sono affidato alla logopedia (con una bravissima logopedista, Sara, che mi faceva, persino, leggere – con il mio eloquio stentato – delle poesie di Alda Merini, Patrizia Cavalli e Kostantinos Kavafis)». Fino al responso: Sclerosi Laterale Primaria. La diagnosi è stata complicata perché la disartria – così si chiama la difficoltà nel parlare – di solito viene attribuita a una ischemia, che «nel mio caso non c’è stata». La disartria nel frattempo si acutizzava. Dopo oltre un anno, la conferma: «Ho una di quelle che si definiscono “malattie rare” che di solito prima colpisce il linguaggio, la deglutizione, infine, il corpo». Un assessore che non può parlare in pubblico non può fare una conferenza stampa, è incomprensibile al telefono, insomma non può più fare l’assessore. «Ho dovuto interrompere, dunque, la bellissima esperienza di Latina, dove Damiano Coletta è stato eletto sindaco per la seconda volta e dove avevo una amicizia vera con Antonio Pennacchi che di “Latina/Littoria/già Cancello del Quadrato” (come diceva lui) ha fatto un mito universale. Con Antonio ho realizzato una sorta di “Maratona Pennacchi” durata un giorno e mezzo con i maggiori critici letterari e linguisti italiani (la “maratona” poi è stata trasformata in un libro edito da Mondadori). In questa città credo di aver lavorato bene perché la condizione che impone risorse scarse, poco personale e libertà illimitata incentiva la creatività, mentre la mia precedente esperienza di assessore alla cultura a Roma è stata tutt’altra cosa. Credo di aver fatto il mio dovere senza infamia e senza lode, gravato dall’ombra di due grandi figure come gli assessori che mi hanno preceduto, Renato Nicolini e Gianni Borgna. E ho reso loro omaggio nel 2007, riproponendo, in occasione del trentennale dell’Estate Romana, il “Napoleon” di Abel Gance». Oggi come è cambiato il mondo intorno a te? «Di solito chi viene a conoscenza della mia malattia mi dice “sei un combattente e ne uscirai sicuramente vincitore”. Un equivoco che nasce dal fatto che sono stato un judoka professionista e un militante politico. Ma la mia è una patologia degenerativa che ha poco a che fare con l’ottimismo della volontà. Oggi praticamente non parlo più. Paradossalmente, ho sempre ammirato quelli taciturni, la cui laconicità suggerisce intelligenza. Hai presente l’Alain Delon di “La prima notte di quiete”? All’inizio degli anni Settanta l’avrò visto dieci volte: Delon interpretava il ruolo di un intellettuale di poche parole, malinconico e affascinante che indossava un cappotto di cammello. Oggi sono arrivato finalmente alla meta, anche se in modo del tutto imprevisto. Detto questo, per non sembrarti rassegnato, credo nella ricerca scientifica che, magari, troverà, nella sua geometrica potenza attuale, come scrive lo storico Yuval Noah Harari, una soluzione. Voglio ripeterlo ancora una volta, sono affezionato a come ero, anche se so che non sono più quello che ero. Ho deciso, nel frattempo, di iscrivermi all’Associazione Luca Coscioni».