il Fatto Quotidiano, 5 marzo 2022
André Gide, il ribelle
“Credi in coloro che cercano la verità. Dubita di coloro che la trovano”. Basterebbe questa citazione da Così sia a illustrare la parabola di André Gide. Uno scrittore capace di esercitare una tale influenza, nella prima metà del Novecento, da essere definito il “contemporaneo capitale” (la Nouvelle Revue Française da lui fondata è stata la rivista culturale di riferimento tra le due guerre).
Scandaloso, eclettico e “ribelle a ogni predominio che non fosse quello della letteratura come vita o della vita come letteratura”. Non a caso fu il primo intellettuale in assoluto a fare coming out nel 1924 con un saggio in forma di dialogo intitolato Corydon. Insofferente a ogni morale precostituita tanto da incidere in Nutrimenti terrestri il grido liberatorio “Famiglie, vi odio!”, l’autore francese si dipingeva come una di “quelle creature che non possono crescere senza metamorfosi successive”. In effetti, nell’epoca delle ideologie, non esiterà a distinguersi per le sue abiure (“Non esiste quasi nulla su cui io non abbia cambiato opinione”). Così anomalo da non compendiarsi in una opera magna. È la sua intera bibliografia il suo capolavoro, una ininterrotta collezione di pagine che si dipanano come un diario. Proprio il suo Journal dimostra quanto Gide abbia affidato alla parola scritta tutti gli eventi e i sentimenti che hanno scandito i suoi 81 anni di vita. La letteratura è stata l’esorcismo con il quale liberarsi dei fantasmi di una formazione segnata dal senso di colpa e dall’ipoteca materna.
Nato a Parigi nel 1869, figlio unico e solitario, subì il plagio di un’educazione puritana da una madre che “non rideva mai”. Rinnegarla significò accettare la propria omosessualità, metabolizzata anche grazie all’incontro con Oscar Wilde nel 1891 e a un viaggio in Tunisia. Se il grano non muore non è che l’eco di questa presa di coscienza, di questa “incapacità totale a mescolare lo spirito e i sensi”. Lo scrittore cede tuttavia a un matrimonio di facciata con una cugina, che scoprirà più tardi la sua doppia vita. L’immoralista ne è la trasfigurazione romanzesca. È la storia di un letterato che, dopo un primo viaggio africano con la moglie, sconta i postumi di una malattia che determina un cambiamento accentuato da un secondo viaggio nel continente nero, all’insegna di una relazione voluttuosa con un maghrebino.
Questo suo nomadismo esotico si tradurrà in un clamoroso j’accuse contro il colonialismo francese. La spedizione nell’Africa equatoriale tra il 1925 e il 1926 è raccontata in Viaggio al Congo. Il testo torna in libreria per Marsilio con una nuova traduzione a cura Giordano Tedoldi che nella sua prefazione scrive: “Se Conrad aveva illuminato, di una luce pur flebile, il cuore tenebroso dell’Africa, Gide ce ne mostra il rivestimento, la pelle”. La coscienza politica dell’autore dei Falsari è segnata per sempre: “Quale demone mi ha spinto in Africa? Insomma, che cosa cercavo in questo Paese? Ero tranquillo. Ora so; devo parlare”. È da questo primordiale contatto con i misfatti del capitalismo che Gide finisce con l’abbracciare la fede marxista e diventa un’icona della sinistra europea. È in virtù di questa fama che nel 1936 pubblica Ritorno dall’Urss, volume nel quale denuncia apertamente le storture dello stalinismo: “Tre anni or sono dichiaravo la mia ammirazione per l’Urss e insieme il mio amore… È un modo per avvertire subito che questo amore è stato tradito”. Così come aveva fatto nel suo viaggio in Congo, Gide attraversò il territorio sovietico lontano dalle delegazioni ufficiali, immergendosi tra la gente con la vocazione del turista. L’intellighenzia rossa non gli perdonerà questo scarto illuminista. Togliatti lo inviterà a occuparsi di pederastia, il quotidiano comunista L’Humanité, all’indomani della sua scomparsa nel 1951, pubblicherà un necrologio sotto il titolo “Un cadavere è morto”.
Gide, premio Nobel nel 1947, non esita a pagare dazio per i propri convincimenti, pronto a sfidare la deprecazione pubblica in nome della propria verità. Resta un esempio per la sua spudorata libertà e per lo stile piano e persuasivo con la quale la sublimava: “Dubitate di tutto, ma non dubitate mai di voi stessi”.