La Stampa, 5 marzo 2022
Intervista a Massimo Recalcati. Parla di PPP
«Avevo deciso di dedicare a Pier Paolo Pasolini la mia tesina per l’esame di maturità. Avevo scelto il primo periodo della sua produzione poetica che, come è noto, si caratterizza per l’uso del dialetto friulano. Avevo appreso quel dialetto da mia madre. Non sapevo parlarlo ma lo intendevo benissimo. Era una specie di segreto, una intesa nascosta, sotterranea tra noi. Quando ho ritrovato nelle liriche di Poesie a Casarsa di Pasolini quella lingua ho così riascoltato suoni antichi, suoni che mi sono appartenuti da sempre. La durezza aspra e la dolcezza misteriosa della lingua friulana è stato il mio primo contatto culturale, ma anche, se posso dire così, fisico con Pasolini». Viene da lontano, come una specie di affinità, di parentela, il rapporto del professor Massimo Recalcati con il poeta, il saggista, il narratore, il critico militante, il regista e il drammaturgo di cui il 5 marzo ricorrono i cento anni dalla nascita. In una specie di testa a testa, di confronto passionale e stringente, il notissimo filosofo e psicoanalista, studioso di Sartre, Freud e Lacan, ha dedicato la sua ultima affascinante esegesi, Pasolini. Il fantasma dell’origine (Feltrinelli), allo scrittore che la notte del 2 novembre 1975 fu barbaramente ucciso, percosso e travolto dalla sua stessa auto all’Idroscalo di Ostia.
Professore, lei scrive: “Ho incontrato il testo di Pasolini dopo aver incontrato da ragazzo il suo corpo morto, ferocemente assassinato… il corpo straziato di Pasolini fu una scossa”. La sua generazione, quella dei ragazzi degli anni Settanta, è stata la prima a riconoscere in Pasolini un emblema di anticonformismo e libertà intellettuale fuori dagli schemi del pensiero dominante?
«A noi giovani che vivemmo con grande entusiasmo il movimento del ’77, Pasolini appariva innanzitutto come un simbolo. Mentre nel Partito Radicale di Pannella la presenza di Pasolini era innanzitutto una presenza intellettuale, politica, militante – per diverse ragioni credo che il Partito Radicale fosse stato il suo vero partito -, per noi Pasolini era, appunto, un simbolo. Quale? Quello di una rivolta permanente al sistema, di una nostra comune inassimilabilità di fondo. Ma pochi di noi lo leggevano o riconoscevano nel suo pensiero il proprio orientamento politico. Allora ci rivolgevano ad altri maestri: Sartre e Deleuze, per esempio. Anche il mio studio più sistematico di Pasolini avviene solo dopo il ’77».
"Il fantasma dell’origine": ci spiega il titolo del suo libro?
«Il titolo vuole indicare un tratto decisivo – se non “il” tratto decisivo – della personalità e, insieme, dell’opera di Pasolini. Quanto meno ai miei occhi. Esiste una inclinazione profonda di Pasolini, uomo e intellettuale, verso l’Origine: la civiltà contadina, il popolo che precede la violenza dell’industrializzazione, il dialetto, il corpo incorrotto, le sue “buie viscere”, la natura, il senso religioso e mitologico dell’esistenza, l’amore esclusivo per la propria madre. Sono, queste, figure che fanno emergere l’idea di un’Origine della vita che precede la storia e, se possibile, il linguaggio stesso. Il processo storico non può che corrompere l’innocenza dell’Origine. È quello che accade violentemente con l’affermazione del capitalismo e della società dei consumi. Ma, a mio giudizio, il Pasolini più grande non è quello che si limita a vagheggiare nostalgicamente uno stato di natura irrecuperabile, un’Origine mitica, ma quello che riconosce – come accade già nelle Ceneri di Gramsci e via via sempre più in profondità – che è proprio dall’impossibilità di ricongiungersi all’Origine che si mette in moto la lingua della poesia e quella del pensiero critico».
Pasolini è stato un profeta del disastro ambientalista con il suo grido di dolore per la “scomparsa delle lucciole”?
«La sua difesa della natura non mi pare sia stata ispirata da un’esigenza ecologica quanto mitologica. La natura per Pasolini è il luogo del mito o, se si preferisce, del sacro. Il suo modo di vedere la vita più che ecologico è stato religioso. Non confessionale, ovviamente. Religioso nel senso di attribuire ad ogni cosa del mondo, all’evento stesso del mondo, la natura del mistero. La colpa dello “sviluppo senza progresso” animato dall’affermazione incontrastata del capitalismo non è stata solo quella di fare sparire le lucciole dalle nostre campagne, ma quella, assai più grave, di avere trasformato l’uomo in una macchina di consumo, di avere desacralizzato la vita, di avere annientato la dimensione miracolosa del mondo».
Contro il radicalismo antiprogressista di Pasolini, presero posizione Italo Calvino ed Edoardo Sanguineti dandogli del reazionario e del populista. Cosa ne pensa?
«Esiste indubbiamente una inclinazione populista nel pensiero di Pasolini che possiamo vedere chiaramente nel suo modo di concepire il popolo come un’incarnazione pre-storica e pre-linguistica del Bene. È quello che definisco come il suo debito irrisolto con Rousseau: tutto esce bene dalle mani dell’Autore delle cose e tutto si corrompe in quelle dell’uomo, dichiarava in apertura dell’Emilio il filosofo francese. È l’anti-storicismo di fondo di Pasolini. Ma l’esaltazione dell’innocenza barbara del popolo non si limita a piegare melanconicamente all’indietro la vita, ma attiva una critica lucida nel tempo presente. Più che la rimemorazione reazionaria di un passato per sempre perduto e, dunque, fatalmente idealizzato, quello che più mi colpisce è la militanza di un pensiero che non si conforma all’esistente. Non a caso le sue riflessioni su questo punto si trovano all’altezza di quelle di Lacan e di Foucault. In gioco è la decifrazione di una metamorfosi del potere».
Come mai nell’articolo “Contro i capelli lunghi” Pasolini sfidò con la sua critica “i capelloni di Piazza di Spagna”, i ragazzi che negli anni Settanta si ribellavano all’autorità del padre?
«Pasolini ha descritto con grande anticipo, come del resto, in quegli stessi anni, fece Lacan, la crisi irreversibile dell’autorità paterna. La sua critica al “nuovo fascismo” della società dei consumi comporta anche la segnalazione della necessità di ricuperare il ruolo simbolico del padre. Ma di quale padre? Il fascismo mussoliniano e i regimi totalitari del Novecento hanno enfatizzato il volto follemente padronale del padre. Non è certamente di questa versione del padre che Pasolini avverte l’assenza. Piuttosto egli rimpiange l’assenza di una parola o di un gesto che sappiano dare senso alla vita. Parola e gesto in cui consiste, in fondo, la funzione paterna una volta spogliata dai suoi abiti più tradizionali dell’ideologia del patriarcato. È, in fondo, la posizione che Pasolini stesso ha assunto nei confronti dei giovani contestatori del ’68. Parla a loro come un padre simbolico: “siete in ritardo, figli…"»
Nella celebre lettera “Il Pci ai giovani!”, la poesia scritta per reazione al movimento del ’68 in occasione degli scontri fra studenti e poliziotti avvenuti a Roma, Pasolini dichiarò di stare dalla parte di questi ultimi. Questa poesia rappresenta il suo più moderno lascito. È così?
«La pars costruens di questa lirica è qualcosa che spesso si dimentica. Si ricorda solo la critica radicale di Pasolini nei confronti dei giovani del ’68, il suo prendere posizione a favore dei poliziotti in quanto figli dei poveri. Ma quella poesia civile che lei ricorda contiene anche un appello a quegli stessi giovani a non separarsi dalle istituzioni, a non limitarsi alla retorica della rivoluzione, ma a farla davvero. Come? Pasolini lo indica chiaramente: andate a occupare la sede del Pci, i suoi vertici, diventate protagonisti di una nuova stagione politica, assumetevi la responsabilità di fare politica, di riformare le istituzioni. C’è una evidente attualità in questa posizione».
L’antipolitica sarebbe piaciuta a Pasolini?
«Per nulla. In questo senso il suo populismo resta mitologico, ma non diventa mai anti-politico. Si può leggere una sua intera raccolta di poesie come Trasumanar e organizzar come una articolata poetica sulla vita delle istituzioni. Troppo facile liquidare Pasolini come un anarchico, un anti-istituzionale, un ribelle, ecc. Esiste invece quella che definisco, appunto, come una vera e propria “poetica delle istituzioni”. È quando Pasolini ci invita a non contrapporre vita e istituzioni ma a riconoscere nelle istituzioni la possibilità che la vita ha di riconoscersi pienamente come comunità. Mentre l’ideologia populista di questi ultimi anni ha voluto contrapporre in un antagonismo sterile le istituzioni alla vita, Pasolini sembra riconoscere il legame profondo e indissolubile che unisce le istituzioni alla vita. È a suo giudizio il miracolo più “misterioso e commovente” che vi sia: rendere possibile la vita insieme». —