Corriere della Sera, 5 marzo 2022
Intervista a Giovanni Maria Vian
Nel suo albero genealogico figura il cardinale Gasparo Contarini, del casato che diede otto dogi a Venezia, detto «il Lutero cattolico». Non parrebbe la migliore referenza per essere promossi alla guida dell’Osservatore Romano. Eppure Benedetto XVI nel 2007 affidò a lui, a Giovanni Maria Vian, il giornale della Santa Sede. Il direttore emerito (dal 2018) non ha difficoltà ad ammettere che, se fosse nato in Germania, oggi sarebbe luterano. «Se invece venissi da Oxford, mi professerei anglicano, e ben contento di esserlo. Ma più di tutto mi sarei visto bene nei panni di un ortodosso in esilio a Parigi dopo la Rivoluzione d’ottobre». Invece gli è toccato un nonno amico di san Pio X, Agostino, il cui matrimonio fu celebrato da Giuseppe Sarto poche settimane prima di partire per il conclave del 1903 dal quale sarebbe uscito papa. Quanto al padre, Nello, fu per 28 anni segretario della Biblioteca Vaticana, ruolo in precedenza ricoperto da Alcide De Gasperi.
Vian onora i suoi geni lagunari pubblicando Il papa senza corona (Carocci). Il libro, che si avvale dei contributi di quattro storici e due scrittori, parla di Albino Luciani, veneto cui toccò lo stesso destino di Pio X, quinto pontefice nell’ultimo secolo innalzato all’onore degli altari (sarà beatificato il 4 settembre). Niente di agiografico: partendo dall’Angelus in cui Giovanni Paolo I annunciò che Dio «è papà, più ancora è madre», Gianpaolo Romanato racconta che il padre del futuro pontefice, Giovanni, ebbe una figlia naturale nel 1895 e che nel 1900 sposò una cugina di primo grado, dalla quale aveva già avuto un figlio, morto nel primo anno di età, e che poi ebbe altri tre figli, deceduti anch’essi poco dopo la nascita, e due figlie, entrambe sordomute. Il volume uscirà il 10 marzo, giorno in cui il direttore emerito dell’Osservatore Romano compirà 70 anni. «Un caso».
Lei crede al caso?
«No. Ma a questo sì. Fra l’altro, per me l’unica data che conta è quella del battesimo, che papa Francesco raccomanda di tenere sempre a mente: 25 marzo».
Ricevette il sacramento dal futuro Paolo VI, se non ricordo male.
«Nella basilica di San Pietro. Giovanni Battista Montini, all’epoca sostituto, cioè il numero 2 del Vaticano dopo Pio XII, era amico di mio padre. Solo dopo la morte di papà ho scoperto dal loro epistolario che Paolo VI, frequentato sino alla fine, fu anche il suo direttore spirituale».
Come nacque questo legame?
«Padre Agostino Gemelli nel 1931 inviò mio padre a Roma a studiare biblioteconomia. Montini era assistente degli universitari cattolici. Si conobbero lì».
La sua famiglia abitava in Vaticano?
«No, di fronte a Porta Sant’Anna. A 7 anni la mamma mi portava a giocare nei Giardini vaticani. Facevo le barchette nella Fontana dell’Aquilone. Mi bagnai le suole, caddi, mi spaccai il labbro e mi scheggiai questo incisivo, vede?».
Da direttore non le diedero la casa?
«Una casina, quella del giardiniere. Umidissima, ma la più bella oltre le mura leonine. Lì vicino abita Benedetto XVI».
Perché ha scelto quel titolo, «Il papa senza corona», per Giovanni Paolo I?
«Perché la rifiutò. L’ultimo a essere incoronato con il triregno fu Paolo VI. Dopo 17 mesi lo fece mettere all’asta. Se lo aggiudicò il cardinale Francis Spellman, arcivescovo di New York. Il ricavato fu devoluto agli affamati del Biafra. Oggi si trova nel santuario nazionale dell’Immacolata Concezione a Washington. Paolo Sorrentino lo mostra in The New Pope».
È un dettaglio così fondamentale?
«Profetico, direi. Il cardinale Beniamino Stella, un veneto devotissimo a papa Luciani, postulatore della causa di beatificazione, mi ha raccontato che una mattina all’alba si presentò all’ex Sant’Uffizio un prete con la barba lunga e la talare stazzonata. Era il patriarca di Venezia. Aveva viaggiato in terza classe tutta la notte per andare in Vaticano a perorare le ragioni di un suo prete che chiedeva la riduzione allo stato laicale. “Questa carica mi schiaccerà”, sospirò. Ed era solo il pastore di una piccola diocesi».
«Morte in Vaticano», «Baron Corvo», «Gli intrighi secondo Malachi Martin». Sembrano capitoli scritti da Dan Brown.
«Papi immaginari, presentati in un convegno tenuto nel Palazzo Apostolico a 100 anni dalla nascita di Luciani. Chiesi a Juan Manuel de Prada di scovarli nella storia del cinema e della letteratura».
Ma sono così numerosi?
«Altroché. Nel 1966 lo scrittore Pietro Imberciadori pubblicò Papa Francesco I. Storia di un Papa che non è mai esistito, in cui immaginava un Bergoglio però italo-congolese. Nel 1974 ecco il Giovanni XXIV delineato da Guido Morselli in Roma senza papa. Nel 1975 l’anonimo autore di Berlinguer e il professore, poi identificato in Gianfranco Piazzesi, inventò un Papa tedesco, che attirava le folle divertite dall’inflessione teutonica del suo italiano. Emilio Ranzato teorizza che la morte repentina di Giovanni Paolo I abbia cambiato per sempre l’immaginario sul Vaticano e sulla Chiesa».
Ritiene che l’ipotesi del delitto regga?
«Per niente. Non ci fu né il caffè avvelenato, né il sovradosaggio di farmaci. John Cornwell, giornalista e scrittore inglese molto scrupoloso, lo ha dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio».
Però la leggenda nera resiste.
«Perché poggia su una base reale: Luciani si accingeva a rimuovere il cardinale John Patrick Cody, arcivescovo di Chicago, ritenuto un bandito, e a riformare lo Ior. Non si fidava del presidente dell’istituto, il vescovo Paul Marcinkus, che lo aveva trattato malissimo quando, da patriarca di Venezia, era andato a protestare contro l’incorporazione della Banca Cattolica del Veneto nel Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Solo che Marcinkus godeva della protezione di don Pasquale Macchi, segretario di Paolo VI. Papa Montini fu abbindolato, oltre che da Calvi, soprattutto da Michele Sindona. Un quadro desolante».
In «La soutane rouge» di Roger Peyrefitte, mai tradotto, Sindona è Bidona.
«Quell’autore detestava il Pontefice, ritenuto progressista. L’ex diplomatico omosessuale aveva già accusato Paolo VI di essere l’amante dell’attore Paolo Carlini. E nel romanzo si spinse a narrare un’orgia di Marcinkus con un prete e una suora, nientemeno che in San Pietro, davanti alla Pietà di Michelangelo».
Fu lasciato così solo che in frigo
non trovò neppure il latte. Cody
e Marcinkus i suoi nemici. Papa
Ratzinger mi chiedeva più foto
Il Vaticano non mosse un dito.
«Nessuna smentita, il disastro comunicativo totale. Il camerlengo Jean Villot impedì l’autopsia sulla salma di Luciani, che avrebbe dissipato i dubbi. Sostenne che mai un pontefice vi era stato sottoposto. Falso: avvenne nel 1830 su Pio VIII».
Ci mise una pezza papa Wojtyła.
«Su suggerimento del primate cattolico d’Inghilterra, Basil Hume, che garantì per Cornwell. E così fu demolita l’assurda tesi del complotto sostenuta da David Yallop. Ma gli esiti del caso restano rovinosi. Quando uscì la fiction tv su papa Luciani, il cardinale Tarcisio Bertone bacchettò il fondatore della Lux Vide, Ettore Bernabei, dell’Opus Dei, perché in una scena si vedeva una tazzina fuori dalla camera da letto di Giovanni Paolo I».
Il Papa infartuato non sorbì il caffè.
«Neppure il latte. E non bisognava dire che a trovare Luciani senza vita era stata una donna, suor Vincenza Taffarel, insospettita dalla chicchera mai toccata».
Il latte? Non capisco.
«Il Papa era così solo, nel Palazzo Apostolico, che la prima sera trovò il frigo vuoto. Il capo della gendarmeria, il veneto Camillo Cibin, mi raccontò che dovette andare a portargli un litro di latte».
A lei chi tolse la corona da direttore?
«Formalmente l’editore, che mi nominò emerito. Di fatto, Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede, l’unico laico ai vertici della curia romana».
Però pronipote di cardinale.
«E figlio di ex ministro, il dc Attilio Ruffini. Venne da me alle 19 e mi annunciò che dall’indomani mi esonerava: “Hai fatto bene, ma dopo 11 anni cambio la squadra”. Il mio predecessore Mario Agnes, rimasto lì per 23 anni, mi aveva augurato di arrivare a 25. E il conte Giuseppe Dalla Torre fu direttore per 40».
«Ricordatevi che la colpa è sempre vostra, soprattutto quando è Nostra», gli disse il Papa, nominandolo nel 1920.
«Benedetto XV era arguto, gli mandava ogni mese le pagelle, spesso feroci».
Papa Francesco era scontento di lei?
«Non credo. Ogni tanto lo sentivo, parlavamo nella sua lingua. A Jorge Milia, un simpatico giornalista di Córdoba che fu suo allievo, diede su di me questo giudizio: “Es trabajador, tiene un buen español, y no molesta”, e non rompe».
S’è trovato meglio con Benedetto XVI?
«Mi aveva scelto. La prima volta che fui invitato a pranzo da lui, mi chiese timidamente: “Perché non pubblica qualche foto in più?”. Io sono piuttosto rigoroso, le avevo tolte tutte. Poi scoprii che lo divertivano molto le vignette che Emilio Giannelli gli dedicava sul Corriere della Sera».
Il licenziamento le è dispiaciuto?
«In famiglia abbiamo visto di peggio. Il capostipite, Andrea Vian, era un tagliaboschi friulano arruolato da Napoleone come granatiere. Nella battaglia della Beresina si salvò sventrando il cavallo e nascondendosi nella pancia dell’equino».
Attualmente che cosa fa di bello?
«Sono tornato a insegnare filologia patristica alla Sapienza di Roma. A parte la parentesi vaticana, salgo le stesse scale da 52 anni. A novembre smetterò».
Chi sono i suoi studenti?
«Al 97 per cento donne. In media non più di 25, come i lettori del Manzoni».
Giovannino Guareschi ne aveva 23.
«Da allievo del classicista Manlio Simonetti, del quale sto curando la bibliografia che include già 900 titoli, sono trasalito scoprendo che il mio esame è fra quelli obbligatori per la laurea in moda».