La Lettura, 5 marzo 2022
I crimini dei Navy seals
La notte del 17 dicembre 2007 i due comandanti dello «Squadrone blu» fanno un giro nella base. Provincia di Helmand, Afghanistan. Peter Vasely e Britt Slabinsky guidano una delle tre «costole» del Seal Team 6, il gruppo più selezionato della Marina, l’élite delle forze speciali statunitensi e probabilmente del mondo. I Seals hanno appena concluso un raid e sono tornati con quattro talebani uccisi. Vasely indossa un visore notturno, guarda dentro un compound. Dalla finestra vede un soldato che armeggia in modo anomalo su un cadavere. Osserva. Capisce. Il militare lo sta decapitando. Quando Slabinsky entra, la testa è quasi del tutto recisa dal collo. È una mutilazione. Un crimine di guerra.
Quello stesso giorno, prima della missione, Slabinsky aveva incitato i suoi uomini: «Voglio una testa su un vassoio». I militari più esperti hanno compreso il senso metaforico. Ma almeno uno di loro ha inteso quella frase come un ordine.
Esiste una storia torbida, devastante, e finora mai raccontata, perché annidata nei campi di battaglia in vent’anni di guerra (senza fine) al terrore: è la contro-storia del Seal Team 6, gli «uomini rana» (così erano chiamati all’epoca della loro fondazione), duecento militari (poi saliti a trecento) della Us Navy, addestrati ed equipaggiati per le missioni più segrete e rischiose: tanto che a 23 di questi uomini è stata affidata the big mish mission, l’uccisione di Osama Bin Laden nel maggio 2011. Il versante oscuro della loro storia impasta una progressiva carenza di leadership ed errori di comando, attività criminali, insabbiamenti, uccisioni di civili disarmati, crimini di guerra, scempio di cadaveri. Uomini che hanno vissuto uno dei peggiori livelli di violenza e morte mai sperimentati dal genere umano: e, in alcuni casi, hanno deragliato. Fino al punto di tornare alla base, dopo le missioni in Iraq e Afghanistan, con lo «scalpo» dei nemici uccisi, in un inquietante transfer con la mitologia guerriera dei nativi americani.
Ora c’è un libro che la racconta, questa storia: Code Over Country: The Tragedy and Corruption of Seal Team Six (Bold Type Books, New York), appena pubblicato dal giornalista Matthew Cole, dopo sei anni di lavoro, l’accesso a documenti e soprattutto a fonti ultrariservate. Un racconto che svela ombre e retroscena di operazioni coperte dal massimo livello di segretezza. Un’inchiesta fondata sull’assunto che la verità sia sempre necessaria in un democrazia e che, in oltre un decennio, sia stata invece sepolta sotto un’industria editoriale e cinematografica che ha sfruttato il brand e l’eroismo dei Seals, fino all’apice del film di Clint Eastwood, American Sniper (oltre 500 milioni di dollari di incasso).
A Dam Neck, il quartier generale dei Seals, esiste un ops computer con l’archivio di tutte le operazioni segrete. Molte fotografie, a partire dal 2005 e fino al 2008, appartengono a un filone sempre più consistente: immagini di combattenti nemici con il cranio aperto a mostrare la materia cerebrale, «il marchio rivelatore di un colpo sparato a distanza ravvicinata nella parte alta della fronte». I militanti con questa ferita a forma di «V» al centro della testa sono stati uccisi in battaglia e poi colpiti, oppure «finiti» con un «colpo di sicurezza». «Tra i membri del Seal Team 6 – spiega il giornalista – questa pratica di profanare i cadaveri era chiamata canoeing» (verbo non traducibile in italiano, ma dal significato intuitivo, a descrivere la deformazione che lascerebbe l’impatto con la chiglia di una canoa). «Non c’è alcuna ragione militare per aprire il cranio di qualcuno con un singolo colpo di arma da fuoco. È sport».
Quelle foto sono la testimonianza di una «violenza estrema e non necessaria» che alcuni gruppi di super-soldati Usa hanno iniziato a praticare dopo un numero esorbitante di missioni ad alto rischio, massacranti nel fisico e nella psiche. In un ambiente, ed è l’elemento decisivo che emerge dalle 357 pagine del libro, che ha via via allentato gli standard per le carriere di ufficiali e comandanti: creando una scollatura tra graduati e soldati, aprendo lacune sempre più ampie nella disciplina, alimentando la sottocultura di una tribù che si è sentita svincolata da qualsiasi forma di giustizia esterna e responsabilità. A rivelarlo sono decine di Seals che parlano (in forma anonima). Il libro è anche un atto di coraggio rispetto a un gruppo militare che nella cultura popolare americana è ormai venerato quasi a livello di divinità.
Il 1° maggio 2011, nella palazzina di Abbottabad, Pakistan, Bin Laden viene colpito da un Seal identificato solo come «Red». Poi sul corpo già esanime spara due colpi Robert O’Neill (un altro Seal che poi avrebbe scritto un libro, aprendo un acceso contenzioso pubblico con un commilitone altrettanto assetato di celebrità, su chi avesse sparato per primo all’«obiettivo», in una corsa al più alto profitto sfruttando il brand del Team 6). Anche Bin Laden è stato canoed da O’Neill. Ed è stato un problema: gli ordini erano di non sfigurare il terrorista, altri soldati hanno dovuto interagire con moglie e figlie di Osama per ottenere certezza sull’identificazione, e questo è costato minuti preziosi durante la più celebre operazione dei corpi speciali americani.
Fare la cronaca delle unità d’élite permette di interpretare da un’angolatura inedita la storia globale dell’ultimo ventennio. I gruppi iperspecializzati nascono per poche operazioni mirate, incursioni e salvataggio di ostaggi. In pochi anni però, a partire dal 2005-2006, in Iraq e Afghanistan si ritrovano a fare «lavoro di polizia» in territorio di guerra, con una frequenza abnorme di missioni, fino a cinque-sei a settimana. Da antiterrorismo ad antinsurrezione: e questo ha moltiplicato le uccisioni, le perdite, le ferite fisiche e psichiatriche. Dentro questa killing machine disponibile h24, in due guerre in contemporanea, s’è abbassato il curriculum degli ufficiali, il controllo sugli uomini è diminuito.
Nel 2005, in Iraq, i Seals iniziano a vedere alcuni colleghi della Delta Force, i corpi speciali dell’aviazione, che portano in battaglia un’ascia. Il nuovo capo dello «Squadrone rosso» del Team 6 cerca donatori privati perché anche i suoi uomini la abbiano. Li trova. Le armi costano fino a 600 dollari l’una; hanno l’aspetto del tomahawks dei nativi americani. All’inizio non si sa neppure dove piazzarle nell’uniforme. Poi diventano un simbolo d’appartenenza, il feticcio dell’inclusione nella tribù. Un Seal che è stato nello «Squadrone rosso» rivela che istituzionalizzare la presenza dell’ascia ha fatto passare nei soldati un messaggio univoco: usatela. Quel comandante, oggi ammiraglio, secondo più testimonianze prima delle missioni esortava i suoi uomini dicendo: «Insanguinate l’ascia». Molti l’hanno fatto. Un Seal racconta: «L’ascia in sé diceva: “Non ci interessa la Convenzione di Ginevra”». In quegli anni si moltiplicano le segnalazioni interne su nemici uccisi con l’ascia, mutilazioni, soldati che nei raid parlano dello scalpo dei cadaveri.
L’inizio della storia ha determinato un imprinting ventennale: 4 marzo 2002, Takur Ghar, ven’anni fa esatti. Un gruppo di Seals deve conquistare una postazione a tremila metri d’altezza, nella neve. L’elicottero finisce in un’imboscata. Cade un soldato, Neil Roberts (muore subito, e un uomo di Al Qaeda cerca di decapitarlo: un fatto che scaverà nell’inconscio dei militari statunitensi la percezione di trovarsi in un universo di violenza inaudito). I suoi compagni cercano di recuperarlo con una missione di salvataggio. Altra imboscata. I Seals si ritirano, ma lasciano a terra un compagno (unico della Delta Force) perché il capo squadra, proprio Britt Slabinsky, lo crede morto. Invece, anni dopo, le immagini di un drone rivelano che quella notte il militare rimase a combattere per un’ora da solo, e coprì l’atterraggio di una seconda missione di salvataggio prima di essere ucciso. Per 15 anni i Seals hanno sempre dato versioni contrastanti su quella notte. L’Air Force ha iniziato a reclamare la Medaglia d’onore (il più alto riconoscimento militare) per il proprio uomo. La faccenda viene chiusa nel 2018 da Donald Trump con due Medaglie d’onore. Una per parte. Quella per i Seals è stata uno scudo, scrive il giornalista: «Il sigillo della leggenda sopra la verità e la responsabilità».