La Lettura, 5 marzo 2022
Intervista a Luciano Violante
«Nei tempi della quiete sarei stata la tua leonessa. Sarei stata il tuo serpente piumato nei giorni della guerra, nelle mie spire avrei stritolato i nemici. Ti avrei difeso con la forza delle mie unghie più dure, credimi, di tutto l’acciaio del mondo. Sarei stata alleata e compagna. Ma come vascelli di sventura le parole che temevo giunsero sino a me. Avevi già sposato la figlia del re di Corinto, nozze funeste, per garantirti un regno e a me offrivi di restare tua concubina...».
Sono i primi passi della Medea di Luciano Violante, il testo teatrale che andrà in scena, in prima nazionale, il 10 marzo a Palermo, nella chiesa di San Domenico, dove riposano le spoglie di Giovanni Falcone. Nel trentennale della strage di Capaci, il magistrato e già presidente della Camera torna a interrogarsi sul mito con la controversa figura mitologica che, dopo avere ucciso i propri figli, nel suo peregrinare approda in Sicilia.
Protagonista in scena Viola Graziosi, con la regia di Giuseppe Dipasquale che ha scelto come tessitura musicale il Requiem di Giuseppe Verdi, opera che il magistrato, ucciso il 23 maggio 1992 nell’attentato mafioso insieme con la moglie e gli agenti della scorta, era solito ascoltare. Inoltre, a suggellare le ultime parole del testo, una tromba suonerà le note del «silenzio d’ordinanza», eseguito dal maestro trombettiere in uniforme della Banda musicale della Polizia, per ricordare tutti i figli caduti al servizio del Paese. Nello spettacolo, che verrà trasmesso su Rai 5 proprio il 23 maggio, è prevista anche la presenza muta e impietrita di Giasone, impersonato da un figurante.
Presidente Violante, perché ha scelto proprio Medea?
«È un personaggio senza tempo. Maga, che è quasi come dire fattucchiera, dea o semidea, assassina, colpevole del più efferato delitto per sottrarre i propri figli al destino peggiore, alla schiavitù del padre Giasone. A mio avviso è la riscattatrice degli assassinati di mafia. Medea uccide e poi si pente. La Sicilia, purtroppo, prima uccide i propri figli e poi li piange ma, per quanto riguarda l’anniversario della strage di Capaci, voglio precisare una cosa. Non esistono morti di serie A e di serie C. Falcone, come Paolo Borsellino, sono stati uccisi con la loro scorta... quando muore un magistrato, viene celebrato e ricordato con grandi manifestazioni, quando muore un poliziotto della scorta non si fa altrettanto, muore e basta. Eppure ci vuole coraggio a fare la scorta, perché è un lavoro di retrovia rispetto a quello del magistrato».
Quale linguaggio ha scelto per questa «Medea»?
«Posso dire di avere compiuto ottimi studi classici, quindi mi è rimasto l’amore per quei modelli, quegli archetipi semplici e lineari che costituiscono la base, la radice della lingua. In Sicilia ho lavorato una ventina d’anni per organizzare la lotta alla mafia, ma questa terra contiene in sé anche la cultura greca, araba, normanna; è un luogo emblematico. E ancora più iconico è il luogo dove avviene la messinscena: la chiesa è un tempio e, in particolare, la Chiesa di San Domenico ha già una scenografia importante. Comunque, non amo la retorica degli anniversari: persone come Falcone non devono essere ricordate perché sono morte, ma per quello che hanno fatto da vive».
Come lo ha conosciuto?
«Era il 1980 o 1981. Ero a un convegno di magistrati e fu Rocco Chinnici, altra vittima della mafia, a presentarmelo. Diventammo amici. Falcone aveva una particolare tecnica di indagine sui fatti, riusciva a investigare anche su quelli apparentemente distanti tra loro. Borsellino aveva la tecnica opposta: i fatti, anche separati, riusciva a rimetterli insieme».
Andare in scena in questa stagione difficile per la giustizia assume un significato specifico?
«Momenti facili, in genere, non me li ricordo, forse mi è sfuggito qualcosa... Sono però convinto del fatto che le persone oggi, proprio per i tempi non semplici che stiamo attraversando in tutti i sensi, abbiano bisogno di proposte non banali. Vorrei raccontare un aneddoto. Io sono pugliese; alla facoltà di Giurisprudenza a Bari sono stato allievo di Aldo Moro. Il suo manuale di diritto penale era molto complesso, corposo, in parte scritto in tedesco, lingua che all’epoca era usata come l’inglese oggi. Un mio compagno sapeva che io conoscevo bene il tedesco e mi propose di trarre dal testo di Moro una sintesi da rivendere agli studenti. La proposta mi convinse e insieme realizzammo un volumetto semplice, che vendemmo molto bene. L’anno dopo mi laureai e venni contattato dalla segreteria di Moro. Andai nel suo studio e vidi, sulla scrivania, il nostro volumetto... capii il motivo della convocazione. E infatti mi chiese ragione del nostro...».
Bignami?
«Bè, certo, era una semplificazione del suo testo. Moro mi ascoltò e poi, specificando che non aveva mai chiesto i diritti per i suoi manuali, mi disse: esiste una differenza tra semplificare e banalizzare. Semplificare significa togliere consapevolmente il superfluo; banalizzare significa togliere inconsapevolmente l’essenziale... Quindi aggiunse, congedandomi: ora, se vuole, può andare».
In altri termini, avevate banalizzato il suo testo...
«Esattamente. Ecco, la gente oggi vuole cose serie, disprezza quelle banali».
Lei è un assiduo frequentatore di teatri e ha scritto altre pièce. Da dove nasce la passione per il palcoscenico?
«Il teatro, a differenza del cinema, è una manifestazione viva: ciò che succede in palcoscenico è ogni giorno diverso, perché dipende dagli attori che recitano dal vivo e, anche, dalla reazione del pubblico. Ho fatto politica per trent’anni, i comizi sono anche teatro. Il meccanismo di partecipazione è lo stesso. I problemi espressivi dell’attore e del politico sono i medesimi: entrambi devono rendere partecipi coloro che ascoltano, trasmettere il senso di quello che raccontano... Un discorso politico è teatrale, un discorso teatrale può essere politico. La comunanza fra teatro e politica è evidente nella Camera dei deputati: una sala semicircolare, un anfiteatro dove avviene la rappresentazione della vita politica del Paese».
Come spettatore, quali autori predilige?
«Amo molto Bertolt Brecht, e ovviamente Shakespeare, che però a volte è un po’ barocco e si presta a essere interpretato con toni oratori. Pirandello mi piace soprattutto per la sua denuncia della società ipocrita del suo tempo».
Prima di questa «Medea», lei ha scritto «Clitemnestra», che ha avuto successo l’anno scorso sempre con l’interpretazione di Viola Graziosi.
«Poi sarà la volta di Circe, che mette a nudo l’aspetto più deteriore dell’uomo».
Come mai tante figure femminili?
«Perché il pubblico che frequenta più spesso le sale teatrali è proprio femminile, ma soprattutto perché la donna ha capacità molteplici, sa fare molte cose insieme, mentre la dimensione dell’uomo è più monotona e monocorde».
Quando va ad assistere alla messinscena di una sua opera è sempre soddisfatto del risultato?
«Una volta che il testo è scritto e viene consegnato a chi lo rappresenta non è più mio, bensì di chi lo interpreta e lo dirige. L’autore non deve intervenire nell’allestimento, altrimenti diventa cantore di sé stesso. Senza contare che spesso la trasposizione scenica può cogliere aspetti del testo di cui l’autore non aveva consapevolezza».
Se potesse ancora dire qualcosa a Falcone?
«Se avessi qualcosa da dirgli, me lo terrei per me...».
Conclude Medea: «Io li uccisi mentre mi guardavano silenziosi con occhi di lacrime. Io li uccisi piangendo, delitto odioso più di ogni altro, commisi, ma è forse delitto meno grave abbandonare consapevolmente i figli alla vergogna? Li avrei visti morire giorno dopo giorno nella disperazione... Tutto questo una madre non può tollerarlo».